Come deve essere la città "femminista"?
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L’aggettivo “Femminista” riferito alle discipline di studio appare attorno agli anni Settanta e indica un approccio inclusivo di tutti quei punti di vista poco considerati dal sistema patriarcale occidentale. Questi sguardi non sono solo quelli delle donne, ma anche delle soggettività appartenenti alle varie minoranze: bambini*e e persone anziane, disabili, LGBTQIA+, minoranze etniche. Nell’urbanistica e in architettura, l’obiettivo è una progettazione degli spazi più partecipativa, equa e orizzontale.
Se guardiamo alla Storia individuiamo nel periodo delle rivoluzioni industriali il momento di avvio di una vera e propria costruzione della donna e della famiglia. Notiamo che questo processo è avvenuto in gran parte tramite la divisione dello spazio. Nelle case è apparso il salotto, luogo di creazione di relazioni familiari, obiettivo nuovo e centrale. La casa si riafferma come luogo del lavoro di cura, svolto dalla donna, che vi rimane così confinata. Lo spazio esterno, parallelamente, si sviluppa come funzionale alla produzione, al lavoro e allo spostamento veloce. Diventa quindi netta la dicotomia spazio pubblico – spazio privato, cioè spazio produttivo – spazio riproduttivo e, implicitamente, sfera maschile – sfera femminile.
E, nonostante le varie lotte di genere e non solo, non essendoci stata una reale riconsiderazione dello spazio urbano, la sua costruzione parte ancora dalle stesse basi. Gli spazi esterni non sembrano ideati per accogliere ed essere funzionali per tutti*e allo stesso modo.
La pianificazione femminista indica la necessità della presa di coscienza di questa situazione per arrivare a una composizione alternativa degli spazi cittadini. Si parla, ad esempio, di infrastrutturazione dello spazio pubblico – più panchine, più parchi giochi, più toilettes, migliore illuminazione –, con l’obiettivo a lungo termine di creare un sistema che agevoli un’equa suddivisione del lavoro di cura e la possibilità di vivere gli spazi serenamente per tutti*e.
Le donne vivono ancora la città con una serie di barriere fisiche, sociali, economiche e simboliche che modellano la loro vita quotidiana attraverso dinamiche che sono profondamente di genere. Molte di queste barriere sono invisibili agli uomini, perché raramente rientrano nelle loro esperienze
Esistono infatti sezioni spaziali che a certe soggettività sono praticamente precluse: l’attraversamento dello spazio di notte, ad esempio. Si discute anche di pianificazione del traffico – iniziative come la “Città 30”, progetto realizzato recentemente a Bologna, che prevede come limite di circolazione i trenta chilometri orari al fine di ridurre il traffico e favorire lo spostamento tramite mezzi pubblici, possono essere lette anche in chiave femminista – o di progettazione di modelli abitativi flessibili.
La geografa canadese Leslie Kern nel libro “La città femminista” scrive: “Le donne vivono ancora la città con una serie di barriere fisiche, sociali, economiche e simboliche che modellano la loro vita quotidiana attraverso dinamiche che sono profondamente di genere. Molte di queste barriere sono invisibili agli uomini, perché raramente rientrano nelle loro esperienze”. Anche in riferimento a questo, sarebbe importante che nelle istituzioni, un ambiente dominato ancora dalla visione unica maschile, arrivasse una maggiore competenza in materia di genere e di disuguaglianze. Le politiche urbane, infatti, avvengono ancora oggi con un limitata conoscenza dell’impatto delle decisioni amministrative sull’utilizzo dello spazio urbano da parte delle donne e di altri soggetti deboli.
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In alcune città europee è attualmente in corso l’adozione di una prospettiva di genere nella pianificazione urbana. Il caso più esemplare è la città di Barcellona, che nel 2016 ha lanciato un “Piano per la giustizia di genere (2014 – 2020)” volto all’eliminazione delle disuguaglianze di genere.
Il piano prevede quattro aree strategiche: cambiamento istituzionale (tramite formazione e bilancio di genere), economia per la vita (promozione della parità di genere nell’occupazione e divisione equa del lavoro domestico), città dei diritti (affrontare le barriere strutturali che violano i diritti umani e sociali) e quartieri vivibili e inclusivi (spazi pubblici urbani sicuri, contrasto alla violenza di genere).
Sono state previste in questa direzione marce esplorative e mappature collaborative, rafforzamento della rete quotidiana nei quartieri (spazi di relazione, servizi, negozi, piazze e parchi progettati secondo indicatori di genere), revisione della mobilità tramite una nuova rete di autobus e biciclette.
In riferimento a quest’ultimo punto, è interessante analizzare la quantità di corse dei mezzi pubblici delle città italiane. Ci accorgiamo infatti che aumentano negli orari di entrata e uscita del lavoro, ma non degli asili, per esempio. Una città femminista è una città che cura questi aspetti, perché tiene conto delle necessità di tutte le persone e non solo delle categorie che hanno detenuto finora il potere decisionale. È una città sostenibile, che non fa discriminazioni di genere, età, provenienza o religione. Una città che persegue il concetto di cura per ottenere spazi pubblici accessibili, inclusivi e fruibili, in cui tutti*e possano sentirsi ascoltati*e e al sicuro.