La retorica del bilinguismo
Il caso del bambino la cui domanda di iscrizione alle scuole medie in lingua tedesca “Adalbert Stifter” del quartiere bolzanino di Gries è stata rifiutata con tanto di lettera – pubblicata sul Corriere dell’Alto Adige del 18 marzo 2023 – riportante tra le motivazioni una «insufficiente conoscenza della lingua tedesca» ha il merito di aver ricondotto su un piano di realtà le dichiarazioni dell’assessora del comune capoluogo Johanna Ramoser circa l’ipotesi di introdurre un test linguistico per l’ingresso nelle scuole tedesche.
Fondamento di questa ipotesi sarebbe la problematica rappresentata dalla quantità di iscrizioni di bambini non tedescofoni – comprendendo nella lista sia i bambini altoatesini che quelli con background migratorio - nelle scuole in lingua tedesca dei centri a maggioranza italiana quali in primis Bolzano e Laives: quantità che di fatto renderebbe l’italiano la prima lingua parlata in classe con conseguente decadimento dei livelli di apprendimento sia del tedesco stesso che delle altre materie insegnate nella medesima lingua.
Anche se è del tutto evidente che la problematica è stata sollevata a mero fine di propaganda elettorale, il problema è reale. Quello che, salvo accenni tanto sporadici quanto disorganici, risulta mancare del tutto dal dibattito in corso è una illustrazione delle vere cause di una parte del fenomeno complessivo: ovvero, sul perché sempre più genitori italofoni iscrivano i loro figli alle scuole tedesche.
Chi scrive ha già affrontato parte della questione nell’articolo intitolato «Il mythos della scuola bilingue»:
«Di scuola bilingue se ne parla nella comunità altoatesina da almeno cinquant’anni. Vale a dire, dall’entrata in vigore dello statuto di autonomia e della successiva introduzione dell’obbligo di bilinguismo nel comparto dell’impiego pubblico, da sempre il principale sbocco lavorativo del gruppo etnolinguistico italiano. Ed è da ascrivere anche alla sua perdurante assenza il fenomeno che ha visto negli anni una sempre maggiore iscrizione degli alunni altoatesini alle scuole sudtirolesi: se la conoscenza del tedesco - ancora meglio: del dialetto - è ormai una conditio sine qua non per l’accesso alle risorse occupazionali (vedi «Il falso mito della proporzionale»), è giocoforza desumere per quali ragioni le famiglie altoatesine optino per una scelta così radicale».
e nei commenti allo stesso che qui si intendono richiamati.
Di seguito, l’intervento a tema pubblicato sul quotidiano Alto Adige il 22 marzo 2023.
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La scuola e la comunità
Ma la lingua sostanziale qui resta il dialetto
Le dichiarazioni dell’assessora comunale bolzanina Johanna Ramoser sull’ipotesi d'introduzione di un test d’ingresso linguistico per le iscrizioni alla scuola tedesca hanno sollevato il solito vespaio che non ci si può che aspettare da prese di posizione di questo genere.
Facendo la debita tara alla questione elettorale – quest’anno si terranno le elezioni per il rinnovo del consiglio provinciale – e alla sempiterna necessità della SVP di evitare le fughe a destra dei propri elettori, si deve però evidenziare come anche questa volta manchino dal dibattito degli elementi che definire essenziali è quanto meno riduttivo.
Il primo, che la scelta di iscrivere un bambino la cui madrelingua sia l’italiano ad una scuola tedesca è tutto fuorché un passo da nulla e ha delle significative conseguenze individuali e sociali.
Il secondo, che la scelta di questi genitori potrebbe essere la conseguenza del fatto che la scuola italiana è valutata come incapace di insegnare la seconda lingua.
Il terzo, che qualora non vi fosse questa presunta incapacità della scuola italiana, la scelta della scuola tedesca ha evidentemente degli altri motivi.
Il quarto, che alla scuola tedesca – come del resto in tutte le altre scuole – non si apprendono semplicemente nozioni ma si acquisiscono tutta una serie di competenze di cui alla cosiddetta socializzazione secondaria: ovvero, e oltre alla lingua, cultura, e soprattutto usi e costumi.
Il quinto, che quella sudtirolese non è una società ma una comunità. O come direbbe Tonnies, una aggregazione organica fondata su una convivenza durevole intima ed esclusiva e soprattutto escludente dell’altro nella quale la lingua parlata gioca un ruolo fondamentale.
Il sesto, che se in “Sudtirolo” la lingua formale è il tedesco, quella sostanziale – e di comunità - è il dialetto.
Il settimo, che dalla segregazione occupazionale che la vuole impiegabile solo nell’ambito pubblico, e comunque solo se in possesso del patentino e nei limiti della proporzionale, la minoranza territoriale altoatesina esce solo se, oltre a usi e costumi, conosce la lingua di comunità: vale a dire, il dialetto sudtirolese.
L’ottavo, e ultimo, che per i genitori di un bambino di madrelingua italiana la scuola tedesca rappresenta la porta d’ingresso nella comunità sudtirolese e la sua futura occupabilità nel mondo del lavoro.
Chiudo con un’esperienza personale. Nella mia famiglia si parlano entrambe le lingue, quindi i miei figli hanno frequentato scuole sia tedesche che italiane. Ricordo come fosse ieri quando ad un’udienza della figlia minore alle elementari, l’insegnante di tedesco chiese a noi genitori di poter parlare in dialetto. Un fenomeno del genere nella scuola italiana sarebbe semplicemente impensabile: e direi che chiarisce con altrettanta semplicità quanto espresso sopra.
La risposta del direttore dell'Alto Adige
Chiarisce a dir poco! Penso di averle già risposto con il mio editoriale di domenica. La situazione è sotto gli occhi di tutti ma (quasi) tutti fingono di non vedere ciò che - come emerge con chiarezza dalla sua lettera - è a dir poco evidente.
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