“Mapping” – mostra a due
Il titolo è già programmatico di per sé, quello della mostra alla Kunsthalle West di Lana (fino al 7 luglio): Weltanschauungsbildapparatur, una di quelle lunghissime parole composte della lingua tedesca assolutamente intraducibili perché al contempo un compresso saggio di filosofia: “apparecchiature per percepire una visione del mondo” o piuttosto “composizione visiva per una percezione del mondo”? Esso si rifà a un paio di opere esposte, ci svela il curatore Heinrich Schwazer, cui è stato chiesto di svolgere il difficile - ma non troppo - compito di unire i due artisti, Brigitte Mahlknecht e Wendelin Pressl, in un unico spazio espositivo e soprattutto in un concetto espositivo. Altoatesina la prima, classe 1966, del Burgenland austriaco il secondo, classe 1971, vivono e lavorano entrambi a Vienna, e si erano conosciuti per la prima volta in una mostra collettiva dove si erano accorti di avere alcune corde espressive in comune. Mahlknecht, donna di piccola statura, fine e sensibile, focalizza il suo sguardo sul mondo dall’alto, da molto in alto, sono le visioni aeree che la affascinano e che poi riproduce nei suoi disegni ispirati dalle rappresentazioni grafiche per meglio comprendere le scoperte della scienza e non solo. Ma attenzione, non sono delle cartine, le sue, benché alcune possano rimandare nella loro struttura alle ben note carte geografiche antiche. Quando sono nate come oggetto utile all’umanità? Lo dice Schwazer nel discorso introduttivo la sera dell’inaugurazione, molto affollata in quel luogo affascinante in cui ha sede la Kunsthalle West, un cosiddetto “parking house” con le semirotonde finestrate a salire, a piedi, per raggiungere la grande sala ben illuminata dalle enormi vetrate che offrono a loro volta ampie visioni sulle “pezzature” delle piantagioni di mele che la contornano. Situata nella zona industriale di Lana è un luogo che coloro che giungono dalle grandi metropoli ci invidiano. Se lo si potrebbe prendere e trapiantare in una qualche periferia di Berlino, New York o Tokyo, a mo’ di Up (il bellissimo film di animazione in cui si trasporta una casa nell’aria), sono sicura che sarebbe tra i posti “in” della scena artistica essendoci lì, nelle grandi città, i mezzi pubblici che lo servirebbero. Qui nella periferia di Lana, o meglio di Merano, è un posto nascosto e purtroppo disertato, ma si è visto la sera del 21 giugno che anche artisti e galleristi noti della provincia non temono le distanze per essere presenti. Due nomi per tutti: lo scultore Walter Moroder, arrivato dalla Val Gardena, e il gallerista Rizzi, giunto da Laces in Val Venosta.
Forse bisognerebbe cambiare punto di vista anche qui, in Alto Adige, e percepirlo come un grande insediamento urbano, disperso tra valli e monti, ben raggiungibile grazie a una ottima rete stradale? È forse a questo che ci invitano i disegni di Brigitte Mahlknecht? Ad alzare la nostra percezione, tralasciando per un attimo le piccolezze del quotidiano di ognuno per riuscire a vedere le grandi connessioni nel mondo e nell’ambito della nostra umanità concentrandoci sulla bellezza, sulla convivialità, sull’arte e sulla cultura per favorire lo scambio fertile tra esseri umani?
Le cartine geografiche erano nate in una cella di un monaco a Venezia - racconta Schwazer - sulla base di descrizioni o meglio idee di un mondo che quel signore illuminato non aveva mai visto, tantomeno visitato. L’arte visiva e la cartografia erano procedute per secoli mano nella mano, basti pensare a Leonardo da Vinci e Albrecht Dürer. Lo stop giunse quando le misurazioni dei terreni posero fine alle libere distese fino all’orizzonte perché con esse furono istituiti confini e proprietà, stabilendo quella vicinanza pericolosa con il potere e la politica. Ecco perché il curatore inventa per l’arte di Mahlknecht il termine di “anti-mapping” creando lei delle mappe libere ma non prive di riferimenti precisi a territori, da lei stessa percepiti nel corso dei suoi voli intercontinentali. L’amore per il disegno le deriva da quello per la comunicazione, non con parole ma con disegni, avendo lei spesso disegnato le sue lettere, e durante un soggiorno a New York vista la scarsa conoscenza della lingua inglese aveva completato i suoi messaggi con disegni inventando concetti, abbreviazioni, simboli, un vero e proprio linguaggio. Infatti, per lei, la sua cartografia serve a comunicare ad altri un messaggio intrinseco.
Ama perdersi nel labirinto delle strade di una città, ma solo dopo averne studiato la struttura sulla mappa che lei dappertutto acquista, lasciando perdere navigatori digitali. “Usando queste app, noi perdiamo una nostra capacità fondamentale che è l’orientamento naturale che possiamo stabilire nella nostra testa dopo aver studiato una mappa di una zona”, precisa con un bel sorriso Brigitte Mahlknecht. Lei si perde anche guardando fuori dai finestrini volando in alto, dove il sole illumina tutti i territori, fregandosi delle linee di confine disegnate dall’uomo, dove luci piccole dal basso le suggeriscono l’esistenza di villaggi, città, presenze umane. Poi disegna, su fogli bianchi, a perdersi anche lì, tra il bianco, il vuoto, l’astratto non astratto, lasciando andare i pensieri… l’universo è ampio e non appartiene a nessuno, per ora non è diviso e rimarrà, speriamo, indivisibile. Il suo, di Mahlknecht, è un messaggio profetico, in quanto, sebbene le sue mappe siano per un certo verso “falsificate”, stimolano anche a una profonda riflessione politica al di là dello sperimentare lo spazio in un altro modo.
“Mentre Brigitte Mahlknecht offre uno sguardo dall’alto sul mondo, Wendelin Pressl ce lo offre dal basso verso l’alto, verso l’universo infinito”, afferma Heinrich Schwazer con prontezza onde creare il ponte con il secondo artista esposto, per la prima volta insieme. Usano materiali e concetti diversi, eppure hanno in comune il mapping, il focalizzare spazi reali e immaginari per farli diventare nostri, proiettandovi le nostre illusioni, speranze, gioie assieme alle paure, i timori e l’ego. Pressl al contrario di Mahlknecht che nei suoi disegni esprime dettagli e linee fini, pone il suo sguardo verso l’ampliamento, costringe il pubblico a stringere il campo visivo per poi allargarlo mentalmente, come nella Maschine zur Überwindung des Raum Zeit Kontinuums del 2015, un macchinario enorme che offre la visuale in un visore dove si vede… il proprio retro della testa. Pluff! Salto di tempo e spazio, nonché di percezione. Quando mai vediamo il retro della nostra testa, a meno che si utilizzi un doppio specchio? Oppure Der Planetomat, costrutto in carta, cartone, acciaio, lacca e cavi, per offrirci una visuale su qualche pianeta – immaginario, essendo puntato quella specie di cannocchiale verso il muro bianco.
Pressl gioca con la nostra conoscenza dell’universo e dei suoi pianeti, delle stelle e le tante galassie, guidandoci verso una nostra immagine di esso, mentale, fantastica e fantasiosa, infinita, come infinito è lo stesso universo. Ci guida verso una percezione filosofica, una riflessione sulla interazione tra natura e uomo, tra tecnologie moderne e antiche. Prendiamo la sua Lanterna magica: un proiettore piccolo che in loop proietta delle fiamme sul muro bianco. Banale di primo acchito. Ma – la lanterna magica è la prima forma di cinema, grazie alla fiammella di una candela era possibile proiettare disegni su lastre inserite nella grande macchina inventata a fine Ottocento per magici spettacoli con luci e suoni, di qui l’evoluzione verso il nostro cinema contemporaneo in tutte le sue tappe. Il filmato usato da Pressl, ce lo svela lui, è di una molotov che esplode e va in fiamme, un atto di distruzione che a livello estetico è pura bellezza fascinosa. Per di più le fiamme che qui sono proiettate all’esterno, nella vera lanterna magica erano al suo interno… Dentro fuori, proiezione iniezione, distruzione costruzione – Pressl ci apre un mondo, filosofico, immaginario, artistico, infinito.
Di quell’infinito però a volte lui stesso si spaventa, ci confida mentre guardiamo assieme le pezzature piccole da lui disegnate ed esposte in modo davvero “puntuale” nella Disparate Combination, dove di entrambi gli artisti sono state posate opere per terra in una libera combinazione dove non si distingue a prima vista, quelle di uno da quelle dell’altra. Sono piccoli quadretti, i suoi, che mostrano visioni notturne di stelle sovrapposte da righelli vari. “Sono fogli bianchi su cui abbozzo linee con un pennino a punta fine”, continua Pressl nello spiegare uno dei suoi processi artistici, “continuo a far girare la penna finché tutta la superficie è coperta e rimangono tanti puntini bianchi che nel guardarli mi ricordano la visione di un cielo stellato notturno, poi devo subito fermare la mia immaginazione con uno strumento di misurazione per evitare che questa porzione finita si faccia troppo infinita nella mia mente”.
Vedute verso l’alto, non si chiamavano “vedute” i primi filmini a macchina fissa girati dai fratelli Lumière che avevano inventato il cinema nel 1895? Vedute, in quanto permettevano di “vedere” un po’ più a lungo nel tempo ciò che inquadravano con la loro macchina da presa e che poi veniva proiettato nelle sale improvvisate in ristoranti con i giganteschi proiettori che funzionavano, di nuovo, con candele? Vedute nel tempo, allora, vedute nello spazio, oggi, con Wendelin Pressl.