Film | Recensione

Cuore batte soldi?

Materialists di Celine Song racconta l’intersezione tra amore e denaro nelle relazioni moderne. Una commedia romantica che ribalta le regole del genere, anche se non fino in fondo.
Materialists
Foto: Screenshot
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    Forte del successo del debutto Celine Song, regista dell’ispirato e poetico Past Lives del 2023, torna con una nuova opera: Materialists (in italiano distribuito con il titolo Material Love). Anche stavolta la filmmaker sudcoreana-canadese mette al centro della storia una donna divisa fra due interessi romantici. 

    Cos’è

    Lucy (Dakota Johnson) è una matchmaker trentenne impiegata in un’agenzia d’incontri chiamata Adore che ha come target l’alta borghesia newyorkese alla ricerca del partner ideale. La sua visione dell’amore è fredda, strategica, pragmatica; il matrimonio è una questione d’affari, di numeri – una formula matematica da seguire.

    In occasione di una sontuosa cerimonia di nozze di due suoi clienti Lucy conosce Harry (Pedro Pascal), il fratello dello sposo, uno degli scapoli più ambiti di Manhattan, ricco e affascinante finanziere, gentiluomo con le migliori intenzioni, con cui scatta la scintilla.

    La favola si complica quando la stessa sera riappare sulla scena John (Chris Evans), ex fidanzato di Lucy, attore precario squattrinato che per sbarcare il lunario fa il cameriere ai ricevimenti e per cui la donna prova, ricambiata, ancora qualcosa nonostante le difficoltà economiche che li hanno separati. 

  • (c) A24

  • Com’è

    Nel raccontare la sua storia Song resta saldamente ancorata al genere della commedia romantica hollywoodiana, a cui rende evidente omaggio, cercando di “elevarla” e al contempo di decostruirla. Materialists è un film sulle relazioni contemporanee, sul mondo distaccato, sgradevole e materialistico del dating newyorkese e sulla superficialità che può generare. E sono proprio le sequenze dedicate al matchmaking a offrire gli spunti più interessanti e vivaci sul tema dell’amore ai giorni nostri, trattati con acuta ironia. 

    Il film è molto efficace come studio sull’ambivalenza tra la promessa del capitalismo e quella del romanticismo ma comincia a perdere colpi e slancio quando la storia si concentra sul povero ma irreprensibile John, dirigendosi verso territori più innocui e prevedibili. C’è poi un cambio improvviso di tono, rispetto al resto del film, provocato da una sottotrama che riguarda un’aggressione sessuale – un trauma usato, in modo discutibile, come espediente narrativo funzionale a far cambiare radicalmente la visione del mondo di Lucy. Il finale, un po’ scontato, concede forse troppo alle aspettative feel good del pubblico, insistendo sull’idea di dare priorità all’amore rispetto al denaro – abbandonare così repentinamente le proprie convinzioni in nome del “per sempre felici e contenti” sembra però una svolta un filino poco credibile.   

    Decisamente interessante è invece la disamina cinica dell’amore ridotto a una transazione; l’esplorazione delle dinamiche del mercato degli appuntamenti che rivelano il narcisismo imperante nonché i pregiudizi di una certa classe sociale newyorkese; l’idea che il bisogno umano di relazioni venga trasformato in un bene di lusso su misura. Resta, nonostante il caro vecchio lieto fine, una domanda ineluttabile: l’amore è ancora, davvero, incondizionato?