Gesellschaft | Intervista

“Non solo esprimersi, ma comunicare”

La vignettista bolzanina, Valentina Stecchi, parla del suo nuovo libro, il femminismo e il patto col pubblico che cerca di creare disegnando.
La metà della mia mela marcia
Foto: Valentina Stecchi

salto.bz: Fra poco esce il tuo nuovo libro “La metà della mia mela è marcia”. Cosa ci possiamo aspettare?

Valentina Stecchi: In questo libro cerco di trattare il tema delle relazioni umani, specialmente quelle amorose. È una raccolta di situazioni buffe e stereotipate, che esprimono la complessità che c’è dietro alla comunicazione tra persone. Il libro però contiene anche molti messaggi positivi tra cui l’empowerment e la ricerca di se stessi.

Potresti anticiparci qualche storia che troveremo nel libro?

Il libro racconta la storia di Vale, il mio personaggio, che cerca l’amore, appunto - l’altra metà della sua mela -. Il titolo è ambiguo perché non definisce quale metà della mela sia effettivamente marcia. Questo perché il libro non vuole insegnare nulla su come vivere un rapporto e non vuole dare consigli per delusioni amorose, ma vuole invece raccontare quell’universo di relazioni che ognuno di noi nella vita si trova a intrecciare con altre persone e che ci portano a conoscere gli altri e anche molto noi stessi. Le esperienze contenute all’interno del libro cercano di confutare l’idea che siamo in cerca della metà della nostra mela (come diceva Platone parlando dell’androgino), ma sottolinea che noi come individui siamo già un intero e quindi non cerchiamo nessuna metà. In questo senso il libro promuove l’empowerment femminile, perché il mio protagonista è una donna, ma in generale è una riflessione che può essere applicata a ciascuno di noi.

 

 

Le vignette dei tuoi libri trattano soprattutto esperienze personali, illuminando in particolare l’esperienza femminile. Perché hai deciso di porre questo accento?

Quando disegno, parto dalle mie esperienze personali, dando vita a personaggi reali – a partire da me, il mio cane, amici. Attraverso il fumetto però cerco di raccontare qualcosa che non è solo mio. Cerco di astrarre, così che i lettori si possano ritrovarsi nelle situazioni paradossali che racconto.

Uno dei tuoi obbiettivi è quello di sradicare certi stereotipi sulla femminilità e non solo. Come cerchi di fare questo?

Uso l’illustrazione per illuminare i paradossi che tutti noi affrontiamo nella nostra vita. Cerco di evidenziare l’assurdità di certi comportamenti e situazioni portandoli all’estremo. È un modo per riderci sopra, ma soprattutto per rifletterci. Ridendo di noi stessi possiamo accorgerci di come alcuni modi modi di fare e comportamenti siano in realtà assurdi. In più, l’umorismo mi consente di raggiungere più pubblico: essendo troppo aggressivi, ce la si racconta sempre tra persone che sono già sensibili ad una tematica. Invece vorrei raggiungere proprio coloro che non la pensano come me. Poi chiaramente ci sono dei limiti, non tutti i temi sono adatti a questo tipo di trattamento.

La relazione fra la vignettista e il suo pubblico è un patto.

Riguardo l’aspetto femminile delle tue vignette: ti consideri femminista? 

Il femminismo non è uno solo, ma ci sono molti tipi di femminismo. Pur impegnandomi per le tematiche di genere, di solito non uso il termine “femminista” per etichettare il mio lavoro. Il termine “femminismo” tende ad allontanare tante persone, purtroppo.

Perché? 

Tante volte il femminismo è legato a un atteggiamento aggressivo – anche se questo spesso è solo un idea che gli si attribuisce. Etichettare un libro il quel modo a mio parere lo limita nella sua capacità di raggiungere un pubblico più ampio e quindi sensibilizzare chi si ferma davanti all’etichetta -libro femminista-. Cerco di sensibilizzare anche coloro che si sentono estranei. Le mie vignette spesso trattano esperienze personali, rivisitate per essere universali, che molti di noi hanno vissuto. Quindi è anche un modo per avvicinare chi non è sensibile alle questioni di genere o chi esibisce un atteggiamento maschilista. Rendendoci conto dell’assurdità di certe situazioni, ridendoci sopra, uno magari ci riflette e, forse, cambia atteggiamento. È un modo “soft” per sensibilizzare.

Uno potrebbe anche andare a cercare la colpa dell’allontanamento dall’altra parte: non è il femminismo che allontana, ma coloro che non vogliono affrontare critiche più radicali.

Sì. E penso che sia importante a volte anche questo. Siamo ancora lontani da una situazione nella quale ogni persona, ogni sesso ha la libertà di esprimersi senza stigma e limitazioni. Ognuno deve essere libero di essere quello che vuole essere, senza il bisogno di badare all’etichetta di quello che dovrebbe essere. Serve anche una comunicazione più dura su alcuni temi. Quando la situazione è grave, è giusto arrabbiarsi e prendere posizione in modo evidente. Per quanto riguarda il mio lavoro, sensibilizzando nel tempo in questo momento storico, nel contesto nel quale mi trovo, preferisco utilizzare un tipo di sensibilizzazione che lentamente arriva a far riflettere nel tempo.

 

 

I vignettisti spesso usano una lingua molto più polemica della tua. Come si colloca il tuo lavoro in questo panorama?

Entro nel mondo delle vignette in punta di piedi. È un mondo grande, fatto di grandi e ho ancora tanto da imparare. Sono convinta che quando si disegna si dice molto di se stessi, anche solo attraverso il proprio tratto ancora prima della parola. A me non piace fare la satira ironizzando su questo o quel personaggio pubblico. Anche se la apprezzo molto, non è il mio linguaggio. I miei personaggi sono un po’ buffi, legati al mondo dell’infanzia e vogliono certo trattare tematiche di attualità, far riflettere anche su temi importanti, ma senza attaccare l’individuo. Vogliono essere per tutti e arrivare a tutti e aprire riflessioni che vadano oltre la polemica.

Quando la situazione è grave, è giusto arrabbiarsi e prendere posizione in modo evidente.

C’è un pubblico che ti legge di più?

Ho scoperto di avere un pubblico molto più femminile che maschile, anche se circa il 40 percento dei miei lettori sono ragazzi e uomini. Il mio è un punto di vista femminile, quindi forse dipende da questo. Però non mi pongo limiti, cerco di raggiungere più persone possibili.

Ti senti mai limitata in quello che esprimi, cercando di raggiungere un pubblico tanto ampio?

No, non mi limito. Quando mi esprimo con le vignette però so che lo faccio per un publico e in questo c’è una grande sfida: trovare un punto d’incontro. La vignetta è uno spazio in cui disegnatore e lettore arrivano ognuno con le proprie conoscenze, culturali ed esperienziali. La sfida è far scattare un pensiero o un sorriso nel lettore attraverso poche parole, pochi tratti. Questo sempre considerando che l’immagine è polisemica. Alla fine la relazione fra la vignettista e il suo pubblico è un patto.

Da un lato ci sono i tuoi libri. Dall’altro lato ci sono le vignette che fai per testate e organizzazioni. Ti approcci in un modo diverso al tuo lavoro?

Quando lavoro per i miei libri sono liberissima, decido tutto io. Quando scrivo per i giornali, il pubblico al quale mi riferisco magari non conosce il mio lavoro e i miei personaggi. Inoltre ho meno spazio per svilupparli. Il disegnatore dev’essere in un certo senso camaleontico: adattarsi all’ambiente comunicativo in cui si trova, ma rimanendo sempre fedele al suo stile e alla sua forma. Lo scopo non è solo esprimersi, ma riuscire a comunicare.