Nel suo più recente contributo Christine Clignon tocca, tra gli altri, un tema che mi pare valga la pena di riprendere e approfondire. Si tratta, in breve, dell’utilizzo che viene fatto da parte degli organi di informazione delle immagini tratte dai social media per corredare e completare determinati fatti di cronaca.
Nel caso di specie, quello citato nell’articolo, è abbastanza evidente a tutti che completare la cronaca di un femminicidio con delle immagini di una coppia, lui l’assassino e lei la vittima, teneramente abbracciati, sorridenti durante una spensierata vacanza, tesi a impressionare l’obiettivo della fotocamera con una promessa di amore eterno, significa introdurre nel racconto un elemento che non è affatto neutrale, ma che finisce per suggestionare il lettore o lo spettatore ben più di quanto probabilmente potrebbero fare le parole.
La questione, tuttavia, ha un rilievo ancora maggiore se la si vede anche da un punto di vista più generale: quello relativo alla correttezza deontologica dell’utilizzo di immagini estrapolate dal loro contesto per completare una notizia di cronaca.
La questione è divenuta reale con l’affermazione ormai globale di quei “social” ai quali una parte sempre più consistente dell’umanità affida non solo i propri pensieri ma anche, e più spesso forse, i frammenti della propria vita vissuta, le parole e le immagini che segnano il calendario dell’esistenza. I post di Facebook o di altri simili attrezzi digitali prendono fatalmente il posto dell’album dei ricordi familiari, della scatola di latta nella quale erano conservate, un po’ alla rinfusa, le fotografie e del diario scolastico degli adolescenti, che tutto finiva per contenere fuorché l’elenco delle lezioni da studiare per il giorno successivo.
Solo che, rispetto a questi arnesi che ormai prendono la polvere su qualche scaffale, i social hanno la perniciosa tendenza ad esporre il loro contenuto ad una società le cui dimensioni travalicano di gran lunga quelle del giro più o meno ristretto di persone che un’opinabile scelta di chi ha inventato questi strumenti ha deciso di imporci come “amici”.
È la magica formula che ha posto fine, quasi sempre ormai, alle ambasce di chi, in una redazione, doveva confrontarsi con il problema di recuperare una fotografia di coloro che, nel ruolo di vittima o di accusato, fossero assurti ai più che discutibili onori della cronaca.
Credo che tutti coloro che, come il sottoscritto, si sono occupati di cronaca nera in tempi piuttosto lontani ricordino come l’incubo maggiore quello di dover andare dai parenti di una persona a chiedere, per gentilezza, un’immagine che il fotografo di redazione potesse rapidamente riprodurre appena fosse stata staccata da una cornice.
Per molto tempo una soluzione meno traumatica fu offerta dalla banca dati che contiene le immagini utilizzate per ottenere la carta d’identità o il passaporto, con esiti a volte tutt’altro che soddisfacenti come ciascuno può constatare guardando i propri documenti.
Il fatto di sparare a raffica, a corredo di un fatto di sangue, le immagini delle vacanze al mare dei protagonisti non è essenziale e nemmeno risponde il criterio della continenza. È diventata un’abitudine poco piacevole dalla quale i giornalisti potrebbero benissimo astenersi
Poi sono arrivati i social media e davanti ai cronisti a caccia di immagini e di particolari intimi si sono spalancate praterie.
La domanda che ci si può legittimamente porre è la seguente: sino a che punto è lecito approfittare di tutto ciò C’è chi, naturalmente, obietta che chiunque di noi, nel momento in cui schiaccia il fatidico pulsante “pubblica” e mette in rete le foto del matrimonio, della laurea dei figli, delle vacanze su un’isola tropicale o della cenetta romantica a lume di candela deve sapere che tutto ciò diventa in un certo senso di dominio pubblico e che quindi prima o poi potrebbe essere prelevato e trasportato sulle pagine di un giornale, in una trasmissione televisiva, su un sito Internet.
Mi pare si tratti di una tesi priva di sostanza se messa a confronto con le regole della professione giornalistica, che trovano la loro definizione precisa nelle norme deontologiche che sono state fissate nel corso degli ultimi decenni.
Il cosiddetto diritto di cronaca, che consente al giornalista di entrare nella vita e nella morte delle persone, deve essere esercitato osservando alcuni doveri ben precisi. Ci sono un paio di paroline che riassumono, senza esaurirle evidentemente, queste regole fondamentali: essenzialità e continenza.
Un elemento per entrare a far parte del racconto di un avvenimento, soprattutto quando si tratti di casi delicati come quelli che vengono affidati a chi si occupa di cronaca nera, deve essere essenziale per definire gli elementi della notizia stessa. Nell’esercitare questo diritto il cronista deve poi ispirarsi ad un principio, quello della continenza, che abbatte al suolo sin dal principio la tentazione di far vedere quanto si sia bravi nell’aver raccolto particolari capaci magari di accontentare la curiosità morbosa di qualcuno ma del tutto superflui rispetto alla storia che si va a narrare.
Tutto questo vale per le parole, ma, allo stesso tempo, anche per le immagini.
Tornando all’esempio di apertura il fatto di sparare a raffica, a corredo di un fatto di sangue, le immagini delle vacanze al mare dei protagonisti non è essenziale e nemmeno risponde il criterio della continenza. È diventata un’abitudine poco piacevole della quale i giornalisti potrebbero benissimo astenersi, senza con questo far danno a quanto mandano in edicola, on-line o in onda tutti i giorni.
Tra l’altro tecnicamente parlando ci sono tutti i mezzi per isolare, in quel mare di immagini, quel fotogramma di un volto che potrebbe in effetti costituire un elemento essenziale per identificare i protagonisti di una storia, senza dover scavare nel loro album dei ricordi.