Angelucci fa ricorso in appello
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Il giornalista bolzanino Marco Angelucci, caposervizio del Corriere dell’Alto Adige, ricorre in appello dopo la condanna in primo grado per diffamazione nei confronti di Fabrizio Quattrocchi, un italiano - rapito e ucciso a Baghdad nel 2004 - che lavorava in Iraq come guardia di sicurezza privata.
Nell’ambito di un dibattito sulla proposta dell’amministrazione comunale di Bolzano di intitolare una strada a Fabrizio Quattrocchi, durante uno scambio di commenti su Facebook tra vecchi compagni a dicembre 2019 Angelucci, presidente dell’Associazione Stampa di Bolzano, aveva scritto: “Come no… un mercenario che aveva invaso un altro paese. Merito anche di gente come lui se oggi il medio oriente affonda in una spirale di violenza… Potremo dedicargli una statua al parchetto dei cani...”. La frase era stata ritenuta diffamatoria dalla sorella di Fabrizio Quattrocchi, che nel 2020 aveva sporto denuncia, e dal Pubblico Ministero, che in primo grado aveva chiesto una condanna a quattro mesi di reclusione per il giornalista bolzanino. Nel novembre 2024 Angelucci è stato condannato per diffamazione alla pena di 400 euro di multa e al risarcimento di 2.000 euro per la parte civile, che si sommano alle spese legali di 2.500 euro.
La frase scritta su Facebook - secondo quanto riportato dal Fatto Quotidiano - fu ripresa da un ex candidato in Senato per Casapound, che invitava a segnalare il commento all'Ordine dei Giornalisti.
Ad aprile di quest'anno, l'avvocato di Angelucci, Nicola Canestrini, ha fatto ricorso presso la Corte d'Appello di Trento. Il processo si terrà l'11 novembre. Secondo la difesa del giornalista, che ne chiede l'assoluzione, il fatto non costituisce reato, risultando pacificamente scriminato dal diritto di critica. È la stessa vicenda che ha visto suo malgrado protagonista Fabrizio Quattrocchi - scrive la difesa - a rivestire caratteri di forte criticità, essendo stata strumentalizzata da alcune parti politiche, a loro volta fortemente avversate da altre. Inoltre per la difesa la figura del “contractor” appare peraltro circondata da ambiguità.
"In Italia - aveva spiegato al Fatto Quotidiano Aurelio Di Rella Tomasi di Lampedusa, legale della famiglia Quattrocchi - la parola mercenario indica un reato preciso. Due inchieste, a Genova e Bari, si sono concluse con l'archiviazione per l'ipotesi di reclutamento internazionale. Quattrocchi era un ex panettiere che si è trovato a fare quel lavoro lavoro per necessità. Era in Iraq a fare la guardia privata a difese di un hotel, non era lì per combattere e non ha ammazzato nessuno. Dunque per noi chiunque dica una cosa simile commette una diffamazione". Solo ad agosto dell'anno scorso, secondo quanto riportato ancora dal Fatto, la famiglia Quattrocchi ha presentato 248 querele pendenti nei tribunali di mezza Italia.
Come ha scritto il Post nel 2024, in occasione dei 20 anni dall'uccisione di Fabrizio Quattrocchi, l'italiano prima di morire pronunciò la frase «Vi faccio vedere come muore un italiano». L'articolo del Post cita anche un documentario della televisione svizzera dove gli uomini della società per la quale lavorava Quattrocchi parlano del loro lavoro in Iraq. Ad un intervistato viene chiesto anche se si consideri un mercenario. Il Post ricorda inoltre come un processo smentì l'ipotesi che Quattrocchi prestasse servizio militare per uno stato straniero. "Il dubbio rimase comunque, e - scrive il Post - in molti sostennero all’epoca teorie del complotto in cui il rapimento dei quattro (Quattrocchi era stato infatti rapito insieme ad altri tre italiani poi liberati ndr), era collegato ai servizi segreti italiani o americani. L’ipotesi che i quattro fossero impegnati in missioni segrete è comunque piuttosto improbabile. Pochi giorni prima del rapimento, Quattrocchi venne ripreso in un documentario (Guerriers à louer ndr) della TV Svizzera, mai mandato in onda in Italia, sul lavoro dei cosiddetti “contractors” in Iraq. In questo video, dopo il minuto 46, si può vedere Quattrocchi insieme ad altri uomini della Presidium, durante il loro lavoro in Iraq: una fonte di pubblicità che società impegnate in attività losche probabilmente avrebbero preferito evitare".
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