Gesellschaft | Giustizia

“I diritti di Riina sono anche i nostri”

L’avvocato Nicola Canestrini critica aspramente l’ondata di prese di posizione contrarie a priori all’ipotesi di consentire al capo della mafia una morte dignitosa.
canestrini.jpg
Foto: web

Il legale di Rovereto - difensore degli indifendibili per tradizione familiare (suo padre è Sandro Canestrini) - lo avevamo intervistato 6 mesi fa e con lui avevamo già affrontato i temi che riprendiamo in questo secondo dialogo, che prende spunto dall’ondata di indignazione e di odio social scatenati da una sentenza della Cassazione. In cui lo scorso 5 giugno è stato tenuto uno spiraglio aperto in merito ad una ipotesi di scarcerazione, legata al fatto che Riina sarebbe gravemente malato e praticamente in fin di vita.  

salto.bz - Che idea s’è fatto dell’ondata di reazioni causata dalla sentenza della Cassazione?
Nicola Canestrini - Non mi immaginavo di poter leggere certe cose. Non tanto tutta questa voglia di giustizialismo, che ormai si trova ovunque. Mi hanno stupito invece gli avvocati che in queste ore hanno detto cose del tutto incompatibili. Mi chiedo se abbiano mai studiato il diritto costituzionale. 

È sconfortato?
Sì, perché pensavo che secoli di civiltà giuridica avessero lasciato una traccia. È da Cesare Beccaria in poi che si dice che la pena deve tendere alla rieducazione e che non ci si può limitare alla componente afflittiva. Quello che mi stupisce di più è che ancora non si sia capito che non si può giudicare un criminale con i soli occhi della vittima. È del tutto evidente che se Totò Riina avesse sciolto nell’acido mio figlio io tenterei di andare su tutti giornali per chiedere che venissero sciolti nell’acido i suoi figli, lui, sua moglie, i genitori ed anche il suo cane da guardia. La vittima insomma ha il diritto di esprimere la richiesta di vendetta e per la vittima non ci sarà mai niente di abbastanza grave da fare all’aguzzino di un proprio familiare. Proprio per questo negli ordinamenti antichi giustizia sostanzialmente voleva dire vendetta, mentre alla famiglia della vittima veniva lasciata anche la scelta sul come avere soddisfazione. Da lì scaturiva la legge del taglione, con il suo occhio per occhio dente per dente. A un certo punto però si è capito che questo non funzionava e che in questa maniera aumentavano i conflitti sociali. Si è cominciato a dire che la giustizia andava affidata ad un giudice che per definizione non può essere la vittima, ma qualcuno che viene da di fuori. Proprio perché ad essere richiesta è proprio… giustizia. E non vendetta. 

"Quello che mi stupisce di più è che ancora non si sia capito che non si può giudicare un criminale con i soli occhi della vittima."

Dove sta il nocciolo del problema?
Nel fatto che per giudicare la gente si mette dalla parte delle vittime, dimenticando che non è questo il giusto punto di vista. Occorre infatti mettersi dalla parte della società. Chiedendosi qual è appunto, per la società, la pena migliore per ogni distinto crimine. Se io concedo sempre alla vittima le redini del gioco, non c’è diritto che tenga per il criminale. E in questo caso - lo ricordiamo - si tratta di un boss mafioso pluricondannato in merito al quale non abbiamo nulla da rivendicare in termini di meritevolezza o di errori giudiziari. È sicuramente colpevole, è stato condannato, non ha avuto pentimenti ed è in carcere da 20 anni. La vera domanda allora è: la vera esecuzione della pena gli consente di mantenere la sua dignità umana oppure no? Il tribunale di sorveglianza aveva detto di sì, perché rimane pericoloso socialmente e le cure gli vengono assicurate anche in carcere. La Cassazione invece ha osservato che quell’individuo che ha 86 anni presenta più forme tumorali ed una degenerazione neurologica importante. Rivalutando quindi l’aspetto dell’attualità della pericolosità sociale. 

"La vera domanda allora è: la vera esecuzione della pena gli consente di mantenere la sua dignità umana oppure no?"

Insomma: la Cassazione non ha detto “scarcerate Riina”…
No. Dice: rimotivatemi bene il punto della pericolosità sociale. Quindi in quesito è: se io sto morendo è davvero dignitoso farmi crepare in una cella del 41 bis. Ovvero, per intenderci senza un contatto che non sia schermato con i famigliari, ovvero senza la moglie e i figli che gli tengano la mano mentre crepa? Voglio ricordare che è di questo che stiamo parlando. Davvero lui deve morire in una cella illuminata a giorno mentre un agente lo guarda dallo spioncino? O possiamo invece immaginare che, sul letto di morte, lo Stato consenta che qualcuno gli possa stare vicino? Ben inteso: lui non ha garantito questo trattamento alle sue vittime. Le persone che ha fatto ammazzare, non hanno avuto questo ‘privilegio’. Però il punto è: esiste una differenza tra la mafia e lo Stato? Ecco: io credo di sì. 

"Esiste una differenza tra la mafia e lo Stato? Ecco: io credo di sì."

Cioè?
Io credo che siamo tanto più forti quanto più riusciamo a garantire i diritti a quelli che li negano. Se invece si dice che è la gravità dei reati che non lo consente, allora io posso anche ribattere: come la mettiamo allora per i pedofili? 

Si innesca un meccanismo pericoloso…
Certo. Perché i diritti fondamentali o ci sono sempre o non ci sono mai. Se mettiamo delle deroghe è finita. Come facciamo con chi ammazza di botte la fidanzata? O con chi butta l’acido addosso a qualcuno? E quello che guida ubriaco a 180 all’ora in un centro storico? Per non parlare dei terroristi… A bene vedere si tratta di interrogativi che ci si è posti più volte, sia in Italia e all’estero. Ma la corte europea dei diritti dell’uomo ha sempre detto che la gravità del reato non può derogare rispetto ad un nucleo di principi fondamentali, che sono talmente connaturati alle società democratiche che negare quei diritti significa negare le stesse società democratiche. 

"I diritti fondamentali o ci sono sempre o non ci sono mai. Se mettiamo delle deroghe è finita."

Insomma: secondo lei questa di Riina sarebbe una grande occasione per riaffermare la nostra… civiltà.
Sì e di per sé la Cassazione lo ha già fatto, ravvisando un difetto di motivazione da parte del Tribunale di Sorveglianza. In Italia ci sono stati casi analoghi, come quello di Contrada nel 2014, per il quale l’Italia è stata condannata per aver violato l’art. 3 ovvero il divieto di pene inumane. Dobbiamo sempre ricordarci che per il nostro ordinamento giuridico le pene devono portare alla rieducazione e non devono mai essere degradanti. Perché il passo successivo è poi quello di dare nuovamente spazio alla tortura. Ne ha parlato recentemente anche Trump, dicendo che “la tortura funziona”. Se il fine giustifica i mezzi allora ricominciamo a strappare le unghie al ladro e non è più finita.

"Per il nostro ordinamento giuridico le pene devono portare alla rieducazione e non devono mai essere degradanti"

In questi giorni ci sono state due tipologie di reazioni all’orientamento espresso dalla Cassazione. Da una parte si sono moltiplicati i commenti scatenati in maniera incontrollata sui social e dall’altra sono fioccate le reazioni contrarie alla pietà nei confronti di Riina, espresse da personaggi di spicco anche della politica e della magistratura. Qual è stata la sua reazione di fronte a questa ondata di commenti indignati?
Sinceramente io trovo fuori luogo parlare di pietà in questo caso. La pietà è una questione personale che può avere motivazioni religiose o di coscienza. Io per Totò Riina non provo né pietà né compassione. Quello che credo invece è che Riina, come qualsiasi altro essere umano, meriti che gli vengano garantiti i diritti fondamentali. Quello che dico lo dico a tutela anche mia, di chi mi sta intervistando e a ben vedere anche di tutti quelli che si scatenano. Facendo l’avvocato spesso mi è capitato di vedere che chi critica ed è supergiustizialista con gli altri, poi magari quando viene in ufficio da me per farsi difendere è invece prontissimo a cavalcare il cavillo. Lo stesso che con Riina è inflessibile, poi magari quando viene beccato con una guida in stato di ebbrezza mi chiede se non si può invalidare l’etilometro. Insomma: c’è qualcosa che non mi torna. Se poi vedo che la Bindi commenta dicendo che a Parma c’è un centro clinico d’eccellenza, devo anche ricordare i frangenti in cui in proprio in quel luogo detenuti sono stati presi a botte e a loro è stata versata addosso candeggina. Per non parlare della registrazione effettuata in quella struttura, dove gli agenti dicono testualmente “non esistono avvocati e giudici, la legge siamo noi”. Si tratta di episodi inquietanti, in merito ai quali il garante dei diritti del detenuto ha avuto spesso da ridire. Sempre a Parma l’Unione Camere Penali a marzo di quest’anno aveva chiesto di entrare, ma no è stato concesso di accedere al padiglione 41bis. Non so quali elementi abbia in più Rosi Bindi rispetto a questi che ho io. Dico solo che non è vero che nelle carceri italiane ci sia un perfetto rispetto dei diritti fondamentali. 

"Quello che dico lo dico a tutela anche mia, di chi mi sta intervistando e a ben vedere anche di tutti quelli che si scatenano."

E che diciamo degli utenti dei social, che non hanno perso l’occasione di scatenarsi?
Non auguro niente di male a nessuno. Ma a loro dico: “quando vi troverete in una situazione analoga vi auguro di subire un’ondata di odio da parte di leoni da tastiera così capirete cosa vuol dire e  com’è diversa la realtà e soprattutto com’è complessa prima di poter dare un giudizio”. 
Scommetto che la sentenza della Cassazione non se la sono neppure letta. Guardano il titolo e poi scrivono la loro banalità. Il problema grosso è che finché lo dico al bar la cosa rimane circoscritta, mentre invece su Facebook diventa un dimensione collettiva politicamente rilevante. Così i politici che tendono a inseguire gli umori, invece che cercare di avere un’azione di contrasto rispetto alla bestia che c’è in noi, non fanno altro che muoversi affinché vengano prodotti altri mostri. 

"Vi auguro di subire un’ondata di odio da parte di leoni da tastiera così capirete cosa vuol dire e  com’è diversa la realtà e soprattutto com’è complessa prima di poter dare un giudizio”

Bild
Profil für Benutzer Mensch Ärgerdichnicht
Mensch Ärgerdi… Fr., 09.06.2017 - 12:22

Leggendo l'intervista pare che il problema di fondo sia il sistema penitenziario italiano e non il luogo della morte di Riina. Se a Parma succedono cose da terzo mondo e dall'intervista pare che ci siano elementi inopinabili per affermarlo, allora è ora di puntare i riflettori su queste strutture. Che la pena debba tendere alla rieducazione del condannato è una verità sacrosanta, allo stesso modo però anche l'aspetto punitivo afflittivo ha legittimamente la sua ragion d'essere, sopratutto per chi non si pente.

Fr., 09.06.2017 - 12:22 Permalink