La vendetta è una cosa complicata
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***1/2
Gli mancava solo il trionfo a Cannes dopo aver vinto in passato gli altri tre maggiori festival europei (Venezia, Berlino e Locarno) e così il regista iraniano Jafar Panahi lo scorso maggio si è portato a casa anche la Palma D’oro. Lo ha fatto con un altro film che sfida il regime, girato senza i permessi di ripresa da parte della Repubblica islamica dell’Iran: Yak taṣādof-e sāde – in italiano Un semplice incidente – ora in corsa agli Oscar nella categoria del miglior film internazionale per la Francia.
Cos’è
Rashid (Ebrahim Azizi) sta viaggiando di notte, nella periferia di Teheran, con la moglie (Afssaneh Najmabadi) e la figlia piccola (Delmaz Najafi) quando per caso investe un cane. A causa dell’impatto l’auto si guasta e l’uomo è costretto a rivolgersi a un’officina.
Il meccanico Vahid (Vahid Mobasseri) crede di riconoscere dal passo claudicante di Rashid e dal cigolio della sua protesi metallica l’agente dei servizi segreti, soprannominato “gamba di legno”, che lo aveva torturato anni prima in carcere. Vahid lo rapisce e lo rinchiude nel retro del suo furgoncino, portandolo nel deserto dove scava una buca con l’intenzione di seppellirlo vivo.
Quando Rashid protesta dicendo che non può essere lui il suo aguzzino perché le sue cicatrici sono recenti, il dubbio comincia a insinuarsi nella mente di Vahid che parte quindi verso la città per coinvolgere altri ex detenuti che avevano subito la sua stessa sorte e cercare conferme. Ha davvero catturato l’uomo giusto?
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(c) MUBI
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Com’è
Il film inizia col botto: quando Rashid investe il cane la moglie, rimanendo impassibile, dice alla figlia, triste per la sorte dell’animale, che è stato solo un incidente e che è accaduto per il volere di Allah. La bambina risponde che “non è stato Allah, papà è un assassino”. Da questo episodio prende il via una storia di vendetta rabbiosa e tesa. Nonostante la gravità tematica Un semplice incidente è, a tratti, anche sorprendentemente divertente, con eventi che assumono toni farseschi. Panahi bilancia i toni con maestria, intrecciando suspense, angoscia e un senso di inquietudine costante con l’umorismo nero.
La questione centrale è se le persone chiamate in causa per identificare l’ostaggio finiranno per ricorrere alle stesse tattiche di tortura usate contro di loro.
Il mistero su chi sia l’uomo sequestrato da Vahid ha poca importanza per il filmmaker iraniano, che è molto più interessato alle reazioni emotive che la ricomparsa del presunto ex carceriere suscita in chi è stato abusato da lui. La questione centrale è se le persone chiamate in causa per identificare l’ostaggio finiranno per ricorrere alle stesse tattiche di tortura usate contro di loro e se il compimento della vendetta potrà davvero aiutarle a superare i loro traumi o se offrirà loro una certa misura di conforto o ancora se riusciranno a sopportarne le conseguenze. Panahi dilata questo dilemma morale con lunghi piani sequenza che ci trascinano nella mente dei personaggi per raggiungere il loro tormento.
Un grido di giustizia chiaro e inequivocabile.
Negli ultimi 15 anni Panahi è stato arrestato due volte con l’accusa di fare “propaganda contro lo Stato”, successivamente ha realizzato diverse opere in segreto, trasgredendo il divieto governativo di girare film. Gli era stato inoltre vietato di viaggiare e di concedere interviste per vent’anni. Un semplice incidente affronta questi temi in maniera diretta, è intriso dell’oppressione reale vissuta dallo stesso Panahi, è un grido di giustizia chiaro e inequivocabile. Il regista si concentra soprattutto sui suoi personaggi, catturandone alla perfezione la confusione morale da cui emerge qualcosa di profondamente umano. Si chiude con un finale per gli annali, una sequenza ambigua e disturbante ma gigantesca. E l’ultima inquadratura che continua a risuonare molto dopo la fine dei titoli di coda.
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