Kultur | Salto Afternoon

toh, guarda!

Sponsorizzato dalla NetScout Werner Herzog esplora le potenzialità di Internet nel suo documentario Lo and Behold. Internet: il futuro è oggi (Usa, 2016).
Herzog Filmstill
Foto: Lo And Behold / Magnolia Pictures

Peccato che lo si sia visto (per ora, speriamo!) una serata soltanto, per la rassegna Docu.Emme di Merano, perché le fantasticherie del mondo connesso (così dice il sottotitolo in originale, Reveries of a Connected World) del regista di origini bavaresi che da oltre un decennio vive a Los Angeles andrebbe visto da tutti. Lo and Behold di Werner Herzog conferma che l’inarrestabile visionario rimane fedele alla linea: curioso, indagatore, aperto a sempre nuove esperienze con il suo sguardo innocente da bambino astuto e le sue doti di atten­to osservatore. Una serie di interviste dal setting notoriamente tipico illustrano le contraddizioni dello strumento che interconnette istantaneamente le nostre vite: si va da pionieri della rete alle vittime delle radiazioni emesse dagli impianti wireless, fino a storie horror di stalking e dipendenze virtuali, dove non possono mancare i quesiti riguardanti l’evoluzione futura di quella stessa rete virtuale. Che cosa fa tutta quella massa di informazioni là fuori? Sogna come facciamo noi esseri umani la propria esistenza? Potrà scoprire un giorno l’amore o piuttosto ci farà soffrire – se non lo sta già facendo – ancora di più?

Ma: come raccontare, per immagini, un’entità astratta come quella di Internet? Siamo andati a vedere, per l’appunto. Come altri documentari precedenti, anche questo è strut­turato per capitoli, dieci, a partire da Gli inizi, poi La gloria, Il lato oscuro, Vivere senza rete, fino alle Ipotesi sul futuro. Affascinante è l’incipit che pari a un giallo di altri tempi ci accompagna con inquadratura soggettiva – e l’ormai tipica voce fuori campo dello stesso Herzog – sul luogo del delitto, dentro lo Stanford Research Institute, lungo alcuni corridoi anonimi per entrare nella room 3420, la stanza museo dove si trova un antesignano compu­ter-armadio con tanti cavi e spinotti all’interno. Cosa significa quel “lo” del titolo oltre al modo di dire inglese “lo and behold”, che in italiano corrisponde a “toh, guarda!”? Si riferisce al primo messaggio spedito host to host nel lonta­no 23 ottobre 1969 dai due programmatori sperimentatori che per seguire più da vicino lo storico evento si parlarono contemporaneamente al telefono, fisso ovviamente, per rassicurarsi l’uno con l’altro: «Ho digitato l, è arrivata?». Era la “l” di login, cui era seguita la “o”, entrambe arrivate con successo, ma prima di riuscire a passare alla “g”, il sistema hardware del destinatario era andato in crash… Pertanto il primo messaggio in rete fu mandato e quella saletta ormai trasformata in luogo simbolo dell’ora zero di internet. Da qui Herzog parte per confrontarsi con altri pionieri, esperti, programmatori, ri­cercatori per esplorare la tecnologia senza fili in continua crescita e al contempo i progetti in proliferazione. Il film procede per “mezzibusti” parlanti e di tanto in tanto appaiono - per illustrare le parole - i tipici disegni di tabulati, molecole, un algoritmo calcolato alla lavagna in un’aula universitaria…

Dati su dati, informazioni su informazioni.

Non possono mancare i casi eccezio­nali, come le persone ipersensibili alle radiazioni che corrono senza fili (gli im­pianti wi-fi e non solo), le quali vanno a rifugiarsi in una “No Cellphone Zone” realizzata per ricerche astrofisiche: in un osservatorio nascosto in un bosco fitto si cerca di captare le onde in arrivo dallo spazio, sensibilissime a ogni interferen­za. Questa “No Radiation Zone” offre il giusto rifugio per chi ha dovuto lasciare tutto per l’incapacità del proprio organismo di tollerare le onde elettromagneti­che emesse dai ripetitori e dai milioni di computer, tablet e telefonini.

L’uso improprio di immagini e dati nella rete è raccontato dai famigliari di una vittima di un incidente stradale. La sua testa, volata fuori dalla macchina e ca­duta per terra lontano dal luogo dell’accaduto, fu fotografata da un passante col proprio smartphone, e questa persona, senza la minima esitazione, l’ha postata e fatta “rimbalzare” per milioni di volte sui vari social network nel giro di pochis­simo tempo. Etica? Privacy? Non ha parole per definire quanto successo il padre della giovane, ignaro di tutto ciò che accadeva nella realtà virtuale finché un giorno ricevette la foto via mail: la polizia gli aveva detto che il corpo era irrico­noscibile. «È l’espressione del lato diabolico della società contemporanea in cui viviamo», afferma la madre. L’intero racconto viene fatto mentre sullo schermo vediamo un’inquadratura statica, da foto cerimoniale, intervallata da alcuni pri­mi piani di coloro che parlano: i due genitori sono in piedi, le tre sorelle sedute attorno al tavolo nel salotto della casa, tutti rigorosamente vestiti a lutto e con lo sguardo perso nel vuoto.

Herzog sottolinea nell’off che lui non partecipa a quel gioco al massacro della dignità di una persona e che ha deciso di non mostrare nessuna immagine della ragazza, nemmeno di com’era “prima”, per impedire qualsiasi tentazione che qualcuno possa eventualmente avere la tentazione di mettersene alla ricerca… Parla, anzi fa parlare anche chi di Internet non poteva (e sicuramente non può) più fare a meno, presentando alcune persone ospitate in un centro di riabilita­zione da dipendenza in mezzo alla natura: erano arrivate a vivere più nella realtà virtuale che in quella loro, reale. Cita il caso estremo di una coppia coreana che aveva dedicato tutta la cura al bimbo virtuale di un videogioco dimenticandosi del proprio che lì vicino, nella culla, era morto di fame. Vengono in mente i film reportage dei vari Discovery Channel in cui si alternano esperti e immagini di repertorio per spiegare al pubblico grandi imprese tecnologiche o tecniche, casi clamorosi di eventi assurdi o i misteri dell’universo, finché non arriva la punta ironica del maestro dell’indagine dell’a­nimo umano, che dichiara la propria curiosità riguardo al personaggio del videogioco di cui era divenuta dipendente una ragazza del suc­citato centro. Herzog precisa di non aver osato chiederglielo unicamente perché il solo pensie­ro per lei poteva essere letale e ributtarla nella dipendenza… Al pari di un’alcolista per cui un solo goccio di vino può essere pericoloso, sem­mai avesse deciso di smettere di bere.

Poi arrivano i robot. Quelli progettati alla Carnegie Mellon per vincere il cam­pionato mondiale di calcio nel 2050 contro le squadre umane e quelli che ser­viranno come assistenti degli esseri umani: ad esempio osserviamo un robottino bianco che apre una bottiglietta, ne versa il contenuto in un bicchiere e poi – eh no! Non lo beve lui ma lo porge alla donna cinese in abito manageriale, un completo bianco, che arriva e si allontana con passo cadenzato. Perfettamente in sintonia, quei due.

Dove sta allora la differenza tra un robot e una persona? Tra l’intelligenza ar­tificiale e quella umana? Herzog cita la frase del teorico militare tedesco von Clausewitz, il quale riguardo ai conflitti che continuavano a imperversare disse che «la guerra arriva a sognare se stessa». Lo sa fare anche la rete, là fuori, nell’in­fosfera? E ancora: ci saranno dispositivi che ti faranno innamorare di una deter­minata persona cui si potrà egualmente inviare un tweet solo pensandolo? Per via telepatica? Ottima domanda, dice sorridendo uno dei due esperti interpellati lasciando in sospeso, però, la risposta. Ed è qui che il film fa il salto palesandosi esso stesso come una rete di discorsi sulla rete, dove quest’ultima non è altro che un mare di informazioni: perché è – e sempre sarà – il soggetto umano a trarre conclusioni, a creare un filtro per usufruire al meglio della infinita massa di bit a disposizione. Il filtro qui è il film: la struttura a capitoli, la selezione delle interviste e del parlato, il montaggio, il punto di vista privo di moralismi o considerazioni apocalittiche, il tener conto di ogni pro e contro, di visioni e scongiuri, di dipendenze e di allergie, di progetti fantascientifici e scientifici, senza dimenticare mai ciò che da sempre segna le opere di Herzog, anzi l’intera sua opera: il rispetto dell’umano e del cosiddetto inumano, la ricerca dell’insoli­to e dell’assurdo, l’individuazione di “fattori di disturbo”, anche i più piccoli, la composizione musicale delle immagini e dei suoni.

Lo And Behold: Reveries of the Connected World - Official Trailer, von Lo And Behold / Magnolia Pictures

Le macchine – ci dicono – imparano velocemente da un errore per non rifarlo mai più, ma dietro ogni macchina c’è un essere umano – almeno per ora. Tanto che gli hacker riescono a crackare anche il codice più sicuro, parola di Kevin Mitnick, star della hacker community americana “Roscoe Gang” col nome in codice Condor, che aveva inventato la tecnica dell’IP spoofing (permette la non rintracciabilità del computer da cui si sta lavorando). Lui era riuscito a entrare più volte nel sito dell’United States Department of Defense (il ministero della difesa del governo degli Usa), così come in quello della Nsa (National Security Agency), l’agenzia della sicurezza nazionale che assieme alla Cia e all’Fbi sorve­gliano la sicurezza. Inoltre era entrato diverse volte nella rete del Norad (North American Aerospace Defense Command), la difesa dello spazio aereo degli Usa.