Nei mesi successivi alla tornata elettorale del 4 marzo e alla
nascita del governo M5S-Lega, i capi spirituali delle 11 correnti del partito hanno iniziato una lotta senza quartiere sulla data del congresso e sui candidati alle primarie per la segreteria nazionale.
Mentre il governo
chiudeva i porti alle navi delle ONG cariche di migranti, tagliava i fondi SPRAR dedicati all’
accoglienza, annunciava misure economiche per decine di miliardi senza uno straccio di copertura e mandava a fanculo chiunque glielo facesse notare, gli
eredi del Partito Comunista (mi viene da piangere dalla nostalgia) e della Democrazia Cristiana (aridatece Cirino Pomicino) davano luogo a una guerriglia intestina sull’opportunità di indire il congresso e perfino sul mantenimento o meno del PD come partito, ormai caso conclamato di accanimento terapeutico.
A metà settembre il renziano Giuliano da Empoli prende l’iniziativa e propone di riunire attorno a un tavolo Paolo Gentiloni, Marco Minniti, Carlo Calenda e Matteo Renzi per trovare un accordo di massima sulla rotta da seguire. Al che Nicola Zingaretti, candidato alle primarie con buone probabilità di vincerle, contesta l’iniziativa e annuncia a sua volta una contro-cena con rappresentanti della società civile ovvero un imprenditore, un volontario, un operaio, un amministratore, una studentessa e un professore. Scoppia così quella che i manuali di Storia del 22° secolo definiranno “La Guerra delle Cene”. Lo stesso Calenda commenterà: “L’unico segretario che si dovrebbe candidare è il presidente dell’associazione di psichiatria.”
Passa qualche mese, parte la macchina congressuale e si aprono le candidature alle primarie. Si lanciano in sei: Maria Saladino, Nicola Zingaretti, Maurizio Martina, Francesco Boccia, Cesare Damiano e Dario Corallo. L’unico papabile a non sciogliere la riserva per settimane (infatti i mercati finanziari danno segni di nervosismo) è Marco Minniti. Che il 17 novembre, con enorme sollievo degli investitori stranieri, annuncia che alle primarie ci sarà. Ma esattamente 18 giorni dopo annuncia il suo ritiro, ufficialmente perché l’eventualità che nessuno dei candidati raggiunga il 50 % delle preferenze sarebbe dilaniante per il partito ma tutti gli addetti ai lavori sanno che la ragione è un’altra. Minniti era il candidato di Renzi, che però starebbe seriamente considerando di uscire dal PD per fondare un partito personale (“Se perdo il referendum sulla riforma costituzionale mi ritiro dalla politica!”, ricordate?). E quando Minniti gli ha chiesto di sottoscrivere una smentita formale e Renzi gli ha risposto picche, all’ex Ministro degli Interni è venuto il terribile sospetto che l’enorme cetriolo volante avvistato in quelle ore nei cieli di Roma stesse puntando a mezza altezza proprio su di lui. Ben attento a rivolgere le terga alla parete più vicina, ha pensato bene di sfilarsi dalla contesa.
Avete presente le scazzottate da B-movie in cui uno dei due contendenti perde completamente la testa e continua a massacrare di pugni l’avversario ormai esanime a terra?
È di queste ore la notizia che Matteo Renzi, smentendo tutti i retroscena degli ultimi giorni, non solo non avrebbe intenzione di fondare un nuovo partito ma starebbe perfino considerando di ricandidarsi alle primarie. Avete presente le scazzottate da B-movie in cui uno dei due contendenti perde completamente la testa e continua a massacrare di pugni l’avversario ormai esanime a terra? Ecco, verrebbe da chiedersi cosa ha fatto il PD a Renzi per meritarsi cotanta ferocia. Giusto per non aggiungere caos al caos, Calenda ha proposto di posticipare le primarie a data da destinarsi.
Gira voce che a Roma stia circolando un nuovo potentissimo allucinogeno sintetico. Pare che l’assunzione ripetuta provochi una grave forma di sindrome di Napoleone e una pericolosissima compulsione all’automutilazione.