Kultur | Gastbeitrag

Bellezza trascurata

A Merano fra maggio e giugno è andato in scena il Festival Sonora 702. Ma sui media locali è passato praticamente inosservato. Una riflessione.
Orchestra
Foto: KARLHEINZ SOLLBAUER

Alcune considerazioni a proposito dell’ultimo Festival Sonora 702, avvenuto a Merano in quattro concerti tra il 26 maggio e il 14 giugno. Scriviamolo pure, un patrimonio organizzato e prodotto dall’Associazione Conductus con la direzione artistica di Marcello Fera.


La premessa è che quando si parla di bellezza, non c’è bisogno di avere qualifiche o titoli specialistici. Quando si tratta della bellezza, dovremmo parlarne e basta. Succede che non se ne parla affatto e così mi permetto di farlo io in questa riflessione.
Dunque. Succede di entrare soli in una sala da concerto e uscirne in comunità di esperienza. Succede che sul palco ci sono musicisti eccezionali e musiche del nostro tempo insieme. È la contemporaneità della bellezza.
O meglio ancora, può succedere la bellezza della contemporaneità, ne abbiamo molte prove noi di qui e ora, che facciamo cultura dell’oggi per saperci meglio. Esisto oggi e la mia esperienza di vita e di espressione non può che verificarsi oggi per potermi riconoscere nella compiutezza. È un diritto sacrosanto, e soprattutto un dovere morale per il componimento del mio punto fisso nella storia. Così del tuo, del nostro insieme.
Dunque dicevo, ma questo lo ha detto lo straordinario Gabriele Mirabassi l’altra sera al teatro Puccini di Merano, lo ha detto prima nella conferenza e dopo il meraviglioso concerto svoltosi insieme agli altri grandi colleghi: entriamo soli in un concerto, ognuno con la propria storia e la propria solitudine. All’uscita non sarà la stessa cosa. Tant’è, siamo usciti dal teatro e da un’esperienza di insieme, con un’impronta interiore condivisa, lasciataci da un appuntamento assai unico, datoci in dono dalla forza e dal potenziale del contemporaneo.

Ci sono pagine vuote che dovremmo riempire del nostro tempo, e non lo facciamo. Ci sono applausi che dovremmo riservare al nostro tempo, e non facciamo nemmeno questo

Qui io intendo dire il talento che realizza l’opera partendo dalla scrittura delle musiche, consegnandola all’esecuzione. Ma ancora di più, assegnando agli esecutori il compito di dare loro l’impronta, appunto. Impromptu, cioè senza potersi preparare, nel contesto si chiama improvvisazione, assegnata a momenti specifici del concerto. Per fare questo ci vuole una nobile testa che dà la possibilità e organizza l’evento e il nobile approfondimento di chi eseguirà quanto è stato ideato e pensato. Dovrà andare bene, il contrario potrebbe essere un fallimento. Ma quando si parla di professionalità, di qualità e preparazione, il risultato non potrà che essere straordinario, l’impronta di un momento che esce dal solito, dal normale o dal comune.
Il comune può essere quella musica che ha passato ogni esame tra i secoli e i processi di valutazione, credo di poter dire qui che, prendendo a caso due compositori come Haydn o Beethoven, loro ormai li pensiamo senza possibilità di contestazione. Aggiungo, più che giusto, ormai sono Storia con la maiuscola.


La domanda invece è: ma noi ora? Noi chi siamo? E quanto ci vogliamo per davvero? Personalmente mi si presentano in continuazione queste domande nei miei movimenti letterari e negli ambienti che li ospitano. Non fa differenza, nella cultura questo è un chiarimento che continuerà a tenersi a fianco il punto di domanda.
Mi chiedo quindi nella musica classica, quando si tratta di musica di oggi. Nostra, proprio nostra, del nostro tempo. Musica che ci racconta, perché ci conosce, musica che ci descrive, che porta alle nostre orecchie i registri di noi popolazione? Quanto riusciamo ad accogliere questa musica?

 

 

Mi pare di poter dire e con tristezza, che siamo in grande difficoltà di accoglienza. È difficile incontro il contemporaneo, stentiamo ad accoglierlo per onorarlo. Facciamo molta fatica a seguire il nuovo e addirittura evitiamo il confronto con ciò che avviene e vive nel nostro stesso tempo, stentiamo a riconoscerci in ciò che noi stessi produciamo.
Sono queste, semplici considerazioni di due orecchi tolti dal pubblico, di una che molto volentieri si presta all’unica possibilità che ha e cioè quella dell’ascolto, e che a fine anche di questo concerto L’altra lingua è tornata a casa contenta e più consapevole del tempo musicale presente. Tengo care anche le parole del clarinettista Gabriele Mirabassi, sebbene il giorno dopo, mentre scrivo queste riflessioni, nessuno dà voce di risonanza a un dono straordinario che ci è stato proposto. Non ci saranno scritture e articoli nei media locali, non una voce alla radio.


È dunque un misero stare nel contemporaneo, se i giornali riempiono pagine sugli eventi delle grandi musiche ripetute e ripetute, perché conosciute e conosciute. Con gioia frequento anche quelli. Ma ci sono pagine vuote che dovremmo riempire del nostro tempo, e non lo facciamo. Ci sono applausi che dovremmo riservare al nostro tempo, e non facciamo nemmeno questo. Siamo deboli e indifferenti nei nostri confronti. Molto capaci e giustamente, a celebrare i miti, in questo caso della musica e a dedicare loro clamorosi applausi. Di fronte alla nostra contemporaneità però, ci succede di tenere in tasca le mani. Direi che è un brutto sapersi.