A Gaza è in corso (anche) un mediacidio

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“Fermare il mediacidio a Gaza”. Con queste parole, in un comunicato diffuso il 25 agosto di quest’anno, la Federazione internazionale dei giornalisti (IFJ) ha condannato la strage degli operatori e delle operatrici dell’informazione nella Striscia di Gaza per mano dell’esercito israeliano. Un appello che arriva dopo anni di segnalazioni da parte dell’IFJ. Già prima del 7 ottobre 2023, infatti, l’organizzazione aveva formalmente denunciato le autorità israeliane alla Corte Penale Internazionale per il sistematico targeting dei giornalisti palestinesi. Un primo esposto era stato presentato nell’aprile 2022, in riferimento ai casi di Ahmed Abu Hussein, Yaser Murtaja, Muath Amarneh e Nedal Eshtayeh, tutti feriti o uccisi da cecchini israeliani mentre svolgevano il loro lavoro indossando giubbotti con la scritta “PRESS”. Un mese più tardi, l’organizzazione si era rivolta nuovamente alla CPI per l’uccisione di Shireen Abu Akleh, giornalista di Al Jazeera, anch’essa colpita mentre indossava casco e giubbotto visibili con la medesima dicitura.
In questa direzione, si è mossa da tempo anche l’ong Reporters sans frontières: la prima denuncia al tribunale dell’Aia era stata depositata a maggio 2018 e riguardava l’uccisione e il ferimento di giornalisti durante le proteste della “Grande Marcia del Ritorno” a Gaza, la seconda nel maggio 2021 a seguito dei raid aerei israeliani contro più di venti redazioni nella Striscia. Il 31 ottobre 2023, inoltre, RSF si è rivolta nuovamente alla Corte Penale Internazionale in seguito al decesso di otto giornalisti palestinesi uccisi nei bombardamenti israeliani contro aree civili di Gaza.
Secondo l’Ong “gli attacchi subiti dai giornalisti palestinesi a Gaza corrispondono alla definizione di attacco indiscriminato prevista dal diritto internazionale umanitario e costituiscono crimini di guerra ai sensi dell’articolo 8.2.b dello Statuto di Roma”. Secondo la norma, anche qualora i giornalisti fossero stati colpiti nel corso di operazioni mirate a obiettivi militari legittimi, come sostenuto dalle autorità israeliane, i bombardamenti hanno in ogni caso causato “danni manifestamente eccessivi e sproporzionati ai civili, configurandosi come crimini di guerra”. Se, dunque, per il governo Netanyahu i giornalisti palestinesi erano un obiettivo da eliminare già prima del 7 ottobre 2023, è innegabile che da quella data si assista a un’escalation senza precedenti.
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I dati pubblicati dalla Federazione internazionale dei giornalisti, rivelano che al 31 agosto 2025 almeno 231 giornalisti e operatori dei media sono stati uccisi dai raid dell’esercito israeliano. A fine agosto, i loro nomi sono stati letti pubblicamente in una cerimonia organizzata a Bruxelles dall’IFJ – in collaborazione con la Federazione europea dei giornalisti (EFJ) e il Sindacato dei giornalisti palestinesi (PSJ) – per “rendere omaggio al loro coraggio, condannare il loro assassinio e chiedere giustizia”. Tra i reporter ricordati nella capitale belga ci sono anche Hossam Shabat, Yahya Sobeih e Anas al-Sharif.
Il primo, corrispondente per Al Jazeera Mubasher e collaboratore di Drop Site News, progetto di giornalismo investigativo statunitense, è stato ucciso il 24 marzo 2025 da un bombardamento nella zona di Beit Lahiya. “Hossam stava facendo un’intervista prima di recarsi all’ospedale indonesiano nel nord della Striscia di Gaza per un collegamento in diretta – ha raccontato Ahmed al-Bursh, corrispondente di Palestine Today TV, al Comittee to Protect Journalists –, quando un drone israeliano lo ha colpito con un unico missile, uccidendolo”. Shabat aveva 23 anni.
Yahya Sobeih, invece, era un fotoreporter freelance e collaborava, tra gli altri, con Sabaq 24 News Agency e Palestine Post. Con i suoi video e le sue foto ha contribuito anche a The Phoenix of Gaza XR, progetto di realtà estesa ideato da Naim Abourradi, e Ahlam Muhtaseb che, utilizzando la tecnologia come strumento di memoria e resistenza decoloniale, consente di entrare nella quotidianità e nei luoghi della memoria di Gaza senza tuttavia cadere nella trappola della spettacolarizzazione della distruzione. Il 7 maggio 2025, Sobeih si trovava in un ristorante nel quartiere Al-Rimal di Gaza City per festeggiare la nascita di sua figlia Amirah quando è stato ucciso da un raid aereo israeliano.
E ancora, Anas al-Sharif, 28 anni, storico corrispondente di Al Jazeera a Gaza, ucciso il 10 agosto 2025 in un attacco che ha colpito una tenda allestita per i giornalisti nei pressi dell’ospedale Al-Shifa a Gaza City. Insieme a lui sono rimasti uccisi Mohammed Qreiqeh, corrispondente della stessa emittente, gli operatori di ripresa Ibrahim Zaher e Mohammed Noufal. Nella stessa circostanza hanno perso la vita anche il cameraman freelance Momen Aliwa e il giornalista freelance Mohammed al-Khalidi. Al Jazeera ha condannato gli omicidi definendoli “l’ennesimo attacco palese e premeditato alla libertà di stampa e un disperato tentativo di mettere a tacere le voci che denunciano l’imminente sequestro e occupazione di Gaza”.
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Mentre i giornalisti palestinesi sono costantemente sotto attacco, il governo Netanyahu ha costruito una strategia comunicativa strutturata per giustificare la distruzione in atto, basata sulla diffusione di fake news e sull’amplificazione di contenuti distorti da parte di influencer e content creator. In questo quadro rientrano i costanti aggiornamenti e le “ultim’ora” diffuse da governo ed esercito senza prove trasparenti e spesso smentite da verifiche indipendenti: tunnel, basi militari o centri di comando di Hamas nascosti in scuole e ospedali, per esempio, sono state più volte indicate come giustificazione di raid che hanno colpito civili.
Il caso di disinformazione più noto resta probabilmente quello dei “quaranta neonati decapitati” da Hamas a Kfar Aza – kibbutz a pochi chilometri dal confine con la Striscia di Gaza –, voce ripresa e rilanciata da diversi media internazionali nei giorni immediatamente successivi al 7 ottobre 2023 in seguito alle dichiarazioni di soldati israeliani, ma mai supportata da prove documentali. Dopo pochi giorni diverse testate e organismi di fact-checking hanno smontato la “notizia”. A tal proposito, Oren Ziv giornalista di +972 Magazine, ha dichiarato che durante il tour mediatico organizzato dall’esercito israeliano a Kfar Aza “non abbiamo visto alcuna evidenza di neonati decapitati e né lo speaker militare, né i comandanti hanno menzionato tali incidenti”.
È il lavoro dei creatori digitali, poi, a mostrare in modo evidente come la disinformazione sia diventata parte integrante del genocidio. Secondo quanto riportato da Al Jazeera, a fine luglio il Ministero degli esteri israeliano ha finanziato un tour per influencer MAGA provenienti dagli Stati Uniti, al fine di “contrastare il calo del sostegno a Israele tra i giovani”. L’iniziativa si è svolta a fine agosto e ha visto la partecipazione di dieci personalià del web. Tra loro Brooke Goldstein, avvocata e attivista pro-Israele, che nei suoi post da Khan Yunis ha accusato i media internazionali di “diffondere falsità sulla fame”. Sulla stessa linea Xaviaer DuRousseau, influencer conservatore della cosiddetta Gen Z, che ha diffuso video da Gaza mostrando aiuti umanitari “in attesa di distribuzione” e negando la carestia. Va sottolineato che DuRousseau conta circa mezzo milione di follower sia su Instagram che su TikTok: numeri considerevoli che gli consentono di raggiungere una platea giovanile internazionale che spesso si informa quasi esclusivamente attraverso i social.
In uno scenario in cui i giornalisti palestinesi sono un obiettivo militare e, dal 7 ottobre 2023, ai colleghi stranieri è stato negato l’accesso diretto a Gaza, l’informazione sopravvive grazie al coraggio di chi, dall’interno, non ha mai smesso di raccontare ciò che accade. Nonostante i bombardamenti, la fame e la minaccia costante di rappresaglie, i cronisti palestinesi continuano a svolgere il proprio lavoro, diventando testimoni indispensabili di una realtà che altrimenti resterebbe invisibile al mondo.
Tra loro ci sono Salma Kaddoumi e Wadih Abu Al-Saud, due giornalisti che il pubblico altoatesino ha potuto incontrare online, in occasione degli eventi organizzati dall’Assemblea pubblica per la Palestina ad aprile e maggio presso la sala Rosenbach della biblioteca di Oltrisarco. I due reporter da mesi raccontano le condizioni dei civili sfollati, le evacuazioni degli ospedali e la vita quotidiana sotto l’assedio. Anche in questi terribili giorni, che con l’inizio dell’offensiva terrestre dell’esercito israeliano a Gaza City hanno segnato un’escalation del piano genocidiario del governo Netanyahu, i due continuano a diffondere immagini e aggiornamenti dal campo: le loro cronache, rilanciate anche attraverso i social, non sono “soltanto” notizie, ma frammenti di memoria collettiva e resistenza. La prova che Gaza, nonostante l’orrore, continua a raccontarsi. Spetta alla comunità internazionale – ai governi, alle istituzioni e a tutti i cittadini – la responsabilità di ascoltare la loro voce e, finalmente, agire. Il tempo è quasi scaduto.
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