La montagna dei vecchi abbandonati
-
In Giappone, nella prefettura di Nagano, c’è un modo di pensare e raccontare la montagna molto diverso dal nostro, che è sempre un po’ idealizzante. Si narra, in particolare, che molto tempo fa le donne anziane dei villaggi più poveri, raggiunta una certa età, per non gravare ulteriormente su famiglia e comunità venissero condotte e abbandonate sul monte Obasute. Si tratta in realtà di un’usanza mai documentata, certo cruda, ma oltremodo attuale: con l’incedere dell’età prima o poi capita, almeno agli assennati, di sentirsi d’intralcio ai più giovani. Tanto più oggi in Europa come nel Sol levante, dove a invecchiare si è in tanti e di giovani se ne vedono pochi.
È a questa leggenda, in ogni caso, che si ispira Le ballate di Narayama (1956), racconto d’esordio di un outsider del Novecento giapponese uscita nella «Piccola biblioteca» di Adelphi per la cura di Giorgio Amitrano. Fukazawa Shichirō (1914-1987), di origini umili e montanare, autodidatta e, in quegli anni di ripresa del paese dopo la disfatta bellica, musicista in un locale notturno di Tokyo, scriverà qualche altro testo narrativo prima di mettersi nei guai con un racconto farsesco sulla famiglia imperiale che lo farà cadere in disgrazia e provocherà nel sistema letterario nipponico un duraturo ripiego autocensorio. Ma quel primo mini-romanzo, che aveva impressionato un Mishima ancora giovane ma già abbastanza influente da favorirne il riconoscimento, resta un singolare prodigio compositivo: mescolando in una dimensione sovratemporale racconto, versi del folklore e registro saggistico, Fukazawa narra dell’anziana Orin, che alle soglie dei settant’anni, prima di farsi portare sulla montagna in groppa all’unico figlio Tatsuhei, vedovo a sua volta e con quattro figli, deve assicurarsi che egli trovi una nuova compagna, per poi mettere da parte quanto basta per il banchetto rituale del giorno in cui si accomiaterà dalla comunità dei viventi.
Il figlio maggiore di Tatsuhei, dal canto suo, è lui stesso già in età di accoppiamento e sembra non vedere l’ora che la nonna si ritiri fra i monti. Intanto non si perita di portare a casa la propria bella dopo che, dal villaggio di fronte, è arrivata una nuova consorte per il padre, così le bocche in più da sfamare adesso sono due. Per di più la più giovane è incinta e, anche se c’è unanimità sul fatto che il neonato verrà gettato in un dirupo, sarebbe una vergogna per Orin vivere tanto a lungo da veder nascere un pronipote. Già i suoi denti sani le procurano dileggio e disonore, quasi a dimostrare che non ha alcuna intenzione di decadere, per cui ogni tanto l’anziana cerca di spaccarseli con qualcosa di duro. Ci riuscirà, a un certo punto, ma senza suscitare l’effetto auspicato. Verrà poi il momento di lasciare il villaggio, ma anche qui le cose non vanno tanto lisce, perché Tatsuhei qualche scrupolo se lo fa, a piantar lì la madre fra i cadaveri e i corvi. Il tutto, come detto, accompagnato fluidamente da distici popolari – le ballate del titolo – e commenti esplicativi al seguito.
Se la nutrita postfazione di Amitrano, oltre a introdurci all’autore, ha il pregio di collocare il testo in un filone di riscritture che giunge fino alle sue più recenti riduzioni filmiche, il racconto in sé punta come una meteora a-storica ai nostri strati più profondi e inconfessabili, dove pulsa il legame con i nostri consanguinei e cova il conflitto tra l’istinto a ceder loro il passo e quello di sopravvivenza. La neve che ammanta le pagine conclusive ne è l’ambivalente coronamento poetico, quasi a onorare la nobiltà d’animo di una madre responsabile fino al sacrificio e di un figlio desideroso di condividere con lei un’ultima gioia, pur nella crudezza del tutto.