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Sangue acido

Il cantiere, la frana – e una terribile minaccia. Un estratto del racconto di Flavio Pintarelli per il terzo numero della rivista di letteratura atesina Manaròt.
Virgolo
Foto: ASP/Peter Daldos

Di pagina in pagina, era finalmente giunto il giorno dell’evento. La mattina prescelta mi presentai davanti ai cancelli del cantiere. Lo scavo si trovava sulla sommità della collina del Virgolo e dominava la città, avvolta nell’umidità che annunciava le prime piogge d’autunno. I giornalisti arrivarono qualche minuto dopo, a bordo di una navetta che la Ganma aveva organizzato per condurli al cantiere lungo la strada di servizio aperta sul fianco della collina. Simon Kager scese insieme a loro e prese posto sul palchetto che avevo fatto sistemare di fronte all’ingresso del cantiere. Avevo disposto che i lavori procedessero anche durante la visita, per dare ai partecipanti l’idea di una cantiere vivo e operativo, per cui camion e operai si muovevano alle sue spalle. Ai completi sartoriali che indossava abitualmente, quel giorno aveva preferito un abito più informale. Calzava scarpe robuste ed eleganti, un paio di jeans e, sopra a una spessa camicia a quadri, portava un gilet smanicato. Dovetti ammettere che Kager sapeva il fatto suo. Così vestito dava l’impressione di essere un capocantiere navigato e raffinato allo stesso tempo. Solo l’elmetto di plastica gialla appariva incongruo. Ma tra gli astanti nessuno avrebbe notato quel dettaglio ridicolo alla George W. Bush.
Avevo selezionato con cura i giornalisti più favorevoli al progetto e alla Ganma, che contribuiva in modo generoso alla raccolta pubblicitaria delle testate per cui lavoravano.
«Sono molto felice di avervi qui» esordì Simon Kager rivolto al suo pubblico.
«Questo cantiere, il cui buon esito contribuirà a trasformare il volto della nostra amata città, non è solo un progetto immobiliare e di sviluppo chiave per il futuro di Bolzano. Vuole essere anche l’occasione per sperimentare le tecniche costruttive più all’avanguardia sul mercato».
La sua voce decollava dalle casse dell’impianto audio, sollevandosi sopra il frastuono del cantiere con una leggera sfumatura metallica.
«Chi fa il nostro mestiere oggi vive un’epoca di transizione e grandi cambiamenti. La digitalizzazione e la crisi climatica ci pongono di fronte a sfide che dobbiamo vincere, per garantire alla nostra specie quella continuità che tutti auspichiamo. Nella storia del rapporto tra l’uomo e la natura, i tempi in cui viviamo rappresentano un emozionante campo di battaglia che sarà imperativo dominare».
Kager terminò il discorso tra gli applausi dei giornalisti. Il fotografo ufficiale scattò diverse pose mentre l’imprenditore scendeva dal palco e, con gesto plateale, faceva loro strada all’interno del cantiere. Proprio mentre la solennità di quel momento lasciava posto all’informalità propria di un evento tra amici, l’aria si riempì di un boato minerale.
Una grossa porzione della parete che sovrastava l’area del cantiere si staccò di netto, precipitando a terra. In un istante l’aria fu satura della polvere brunita del porfido, che attaccò i polmoni. Rochi e profondi colpi di tosse punteggiavano l'ordito di grida che si levò lungo il cantiere. Gli operai presero a chiamarsi l’un l’altro. La frana aveva sciolto ogni legame sociale all’interno del cantiere, scaraventando tutti i presenti nella nuda consapevolezza della propria natura mortale. Man mano che la polvere prese a posarsi cominciò a salire un silenzio tetro. In quel marasma solo Simon Kager sembrava aver conservato la sua calma. Spiccava in mezzo alla polvere grazie al suo elmetto giallo, che ora gli dava l’aura del comandante nel cuore del naufragio.
«Non c’è nulla di cui preoccuparsi» gridava. «La visita può continuare!» Ma la sua voce si perse nel vuoto di quel momento tragico.
«Da questa parte signori!» gridò un’ultima volta.
Poi mi scorse nel piazzale, da cui mi stavo allontanando. Lo sguardo che mi rivolse era deluso e privo di empatia. In quella un operaio gli passò accanto correndo. Kager lo afferrò per un braccio e glielo torse con violenza, gridando qualcosa che non riuscii a udire. Un brivido mi riempì il cuore di terrore. Ebbi la sensazione che, se avesse potuto, Simon Kager mi avrebbe ucciso in quel preciso istante.

Una grossa porzione della parete che sovrastava l’area del cantiere si staccò di netto, precipitando a terra. In un istante l’aria fu satura della polvere brunita del porfido, che attaccò i polmoni. Rochi e profondi colpi di tosse punteggiavano l'ordito di grida che si levò lungo il cantiere. Gli operai presero a chiamarsi l’un l’altro. La frana aveva sciolto ogni legame sociale all’interno del cantiere, scaraventando tutti i presenti nella nuda consapevolezza della propria natura mortale.


Seguirono giorni convulsi. Per la seconda volta nel volgere di pochi mesi, un crollo aveva scosso la quiete della città. Due operai erano stati travolti e uccisi dall’enorme lastra di porfido che era precipitata sul cantiere. Le autorità giudiziarie avevano disposto il blocco dei lavori e apposto i sigilli ai cancelli. L’inchiesta sarebbe stata lunga ma l’indiscrezione che i due sventurati erano stati assunti senza regolari tutele da una delle tante ditte a cui erano stati affidati gli appalti del cantiere divenne pubblica rapidamente. E anche se molti erano i nostri alleati nella stampa locale, la cui copertura dell’evento fu improntata a un distaccato garantismo, sui social il tono delle conversazioni si era alzato.
Le voci più critiche sollevavano indignazione e sempre più spesso veniva messa in dubbio l’utilità del cantiere. Il tool di ascolto che avevo messo in opera nelle settimane precedenti ribolliva. Contenere il danno d’immagine intervenendo in quel diluvio di conversazioni che si moltiplicavano era un lavoro ingestibile per una sola persona.
Anche se avevo predisposto una serie di automazioni, l’ausilio di un piccolo team avrebbe reso la mia azione più efficace. Mi sentivo come se per ogni rattoppo che provavo a cucire su quella situazione, altre due fessure si aprissero nella trama della pubblica opinione e da quegli strappi colava, sempre più forte, un sentimento ostile al progetto. In tutto questo ero stato allontanato dal novero dei collaboratori. Simon Kager si faceva vedere pochissimo. Le riunioni di équipe erano state sospese e le decisioni venivano prese da una cerchia ristrettissima di cui facevano parte solo i collaboratori più fidati.
Ottenere informazioni utili a svolgere il mio compito era impossibile e ogni volta che mettevo piede nell’antico palazzo sentivo intorno a me un clima di paura, diffidenza e ostilità. Una mattina scoprii che l’ingresso della Ganma veniva presidiato da guardie armate e Simon Kager lo lasciava solo se accompagnato da quattro gorilla addetti alla sua protezione. Non seppi capire se presentarsi come una persona in pericolo di vita si trattasse di un’astuta mossa d’immagine, o se Kager temesse davvero per la sua incolumità. Rivolsi i miei dubbi ai vertici dell’agenzia, durante una lunga call in cui mi fu chiesto un dettagliato report della situazione.
«Capisco che la situazione sia grave e complessa» mi aveva comunicato il managing director dell’agenzia «ma non possiamo affiancarti altro supporto oltre a quello di cui già disponi».
«Non sto dicendo che quanto è successo sia una tua responsabilità» aveva aggiunto il CEO ma in questo momento devi farti carico delle conseguenze». Chiusi la chiamata con la sensazione che in agenzia ritenessero che quel disastro comunicativo fosse colpa mia.
Il pensiero mi gravava e mi spingeva a lavorare con sempre maggiore impegno. Mi trattenevo negli uffici della Ganma ben oltre l’orario di chiusura e rincasavo spesso attraversando il centro di quella città che, nelle ore notturne, era deserta e vuota di vita, come se i suoi abitanti temessero un qualche orrore in agguato nel buio.
Fu al termine di una di quelle interminabili sessioni di lavoro, mentre scendevo lo scalone che portava all’ingresso del palazzo, che lo vidi per la prima volta. Il simbolo campeggiava su una delle pareti del giroscale, circonfuso in una fosforescenza violacea di cui non comprendevo l’origine. Era costruito intorno a un cerchio che racchiudeva una specie di A maiuscola al suo interno. Dalla circonferenza esterna, in alto, tra le dieci e le due, emergevano due tratti che ricordavano due erre opposte, mentre in basso, in corrispondenza delle sei, si allungava un peduncolo con due escrescenze. Rimasi a fissare quel simbolo che emanava mistero, domandandomi cosa fosse, cosa significasse e, soprattutto, come fosse apparso all’interno di un palazzo sorvegliato da guardie armate. Quella notte sembrava che non ci fosse nessuno e fu proprio mentre mi stavo chiedendo dove fosse la sicurezza che vidi una sottile lama di luce tagliare l’oscurità dell’androne. Un’ombra sgattaiolava fuori da uno spiraglio nel portone. Mi gettai al suo inseguimento nel cuore della città addormentata.
La vidi svoltare nel vicolo più vicino e le tenni dietro. Ancora non so spiegare da dove attinsi le forze per quell’inseguimento. L’aria umida e fredda della notte bruciava i polmoni e i muscoli delle gambe, intorpiditi dalle lunghe ore passate alla scrivania, urlavano il loro disappunto per quella corsa folle. Ciononostante recuperai presto terreno sull’ombra che scappava. La braccai ancora, strada dopo strada, svolta dopo svolta. L’inseguimento terminò di fronte al muretto che delimitava un vigneto.
«Chi sei e cosa ci facevi nella sede della Ganma?» L’ombra non rispose. Feci un passo avanti nella sua direzione, bloccandole la via di fuga.
«Che cos’è quel segno che hai tracciato sulla parete?» Un tremolio mi attraversò le dita delle mani. Le strinsi in un pugno per riprendere il controllo.
«Si tratta forse di una minaccia?», le urlai senza riuscire a trattenere una lieve strozzatura nella voce.
L’ombra allora fu scossa da una stridula risata. Sembrava provenire da una qualche cavità nascosta e fluiva attraverso l’aria diventando sempre più intensa.
«Una minaccia dici?»
Mi guardai intorno disorientato.
«Una minaccia?» ripeté l’ombra con tono beffardo.
«Oh sì, certo che siamo una minaccia mia cara. Una minaccia terribile»
Feci un passo indietro, mentre l’ombra, che fino a quel momento m’era apparsa piccola e inoffensiva, sembrava dispiegarsi tutto intorno a me, allungandosi verso l’alto.
«Noi sappiamo chi siete» continuò «Siete nemici, siete assassini. Voi ci volete morti. Ma tu e Kager non ci avrete».
L’ombra fece un passo avanti, scostandosi il cappuccio che le copriva la testa. Apparve il volto di Robert. Lampi purpurei gli deformavano il viso.
«No, non ci avrete mai, Sandra, perché morirete prima».
La sua voce era un ruggito nella notte. Mi paralizzò, come se pronunciando quelle parole Robert mi avesse avvinto a un qualche incantesimo arcano. Erano anni che nessuno si rivolgeva a me usando il mio deadname.
Poi balzò in avanti, gettandomi contro una delle pareti del vicolo.
Battei la testa contro un mattone e lo vidi fuggire, inghiottito dall’oscurità. Tornando a casa un senso di minaccia prese possesso della mia mente. Mi chiedevo come quello sconosciuto avesse potuto scoprire quel nome che credevo di aver consegnato all’oblio.
E per quale motivo mi aveva aggredito? Cosa aveva a che fare Robert con Simon Kager e il suo progetto?
Le orecchie mi fischiavano forte mentre salivo le scale del palazzo per rientrare al mio appartamento. Entrai in camera senza farmi scrupolo di essere silenzioso; la proprietaria era fuori città, ospite di alcuni parenti. Accesi la luce e il diario di Haeneke era lì, sul comodino. Il lavoro mi aveva assorbito al punto che non lo aprivo dal giorno dell’incidente. Era come se, nel silenzio della mia stanza immersa nel cuore della notte, quelle pagine mi stessero chiamando. Senza neanche togliermi i vestiti mi sdraiai sul letto e iniziai a leggerlo dal punto in cui l’avevo interrotto settimane prima.