Politik | Bolzano 2016

Se il candidato fa l'attacchino

Armati di colla, secchi e spazzoloni ecco i nuovi “politici-fai-da-te”, nella speranza che qualcuno li noti.

Passeggiando tra le bacheche facebook dei candidati alle prossime amministrative di Bolzano se ne incontrano sempre di più. Sono gli “attacchini di se stessi”: donne e uomini armati di secchi da imbianchino, guanti (quelli più igienisti), pennellesse o scope, manifesti elettorali e ovviamente cellulari per riprendersi e successivamente postare le foto dell’impresa.

La faccenda non sarebbe particolarmente eclatante – anche i partiti devono lesinare sulle scarse risorse – se non ci fosse per l’appunto tutta quella voluttà esibizionistica a connotare un gesto che potrebbe, quindi, limitarsi a non millantare per virtù quella che è una mera necessità. E in cosa consiste, dunque, la supposta virtù del candidato-attacchino, qual è il sottotesto da leggere al cospetto di un rituale così condiviso?

“Ecco – sembrano dire i protagonisti –, guardate un po’ cosa ci tocca fare, considerate come ci siamo ridotti”. Ma anche: “Noi non stiamo certo con le mani in mano, scendiamo in strada, persino di notte, perché vogliamo prenderci cura della città, e non disdegniamo neppure i lavori più umili per esprimere tutta la voglia di metterci al servizio della popolazione”. E infine: “Se facciamo questo, se adesso ci sbattiamo in prima persona, è perché saremo in grado di farlo anche dopo, per voi, quando saremo eletti”.

Il nuovo rituale si aggiunge così agli altri due, già in uso da tempo. Quello di recarsi in pellegrinaggio nei quartieri e nelle zone della città in cui generalmente nessuno di loro preferisce attardarsi (con le dovute eccezioni, tipo quella dei militanti di CasaPound, i quali nei quartieri periferici ci sguazzano e per loro è tutto un aiutare la vecchina, purché autoctona, ad attraversare le strisce o un ripulire il giardinetto dalle siringhe); oppure l’altro, ancora più ridicolo, di farsi fotografare assieme a un personaggio noto (prima dello pseudo referendum, tra i fautori dell’omonimo progetto impazzavano le fotografie con René Benko) per brillare un istante di luce riflessa (variante: farsi fotografare con un cane in braccio, sempre per lo stesso motivo). Costume, quello della foto col personaggio famoso, dedotto dalla vecchia abitudine di baristi e ristoratori, sempre orgogliosi di rendere edotti i nuovi clienti su chi ha preso il cappuccino o mangiato le tagliatelle al ragù nei loro locali.

Ovviamente potremmo anche sorvolare su simili inezie, rubricandole come banali effetti collaterali del bisogno di essere visibili in un frangente storico, quello che stiamo vivendo, in cui i politici non sono particolarmente amati dalla gente (che poi, infatti, diserta le urne). Potremmo sorvolare se, oltre a questi atteggiamenti, ci fosse un apprezzabile livello di discussione pubblica, se insomma si potesse parlare anche di altro (e non dico dei “programmi”, anche questo un rituale o poco più, escogitato in ossequio alla vecchia superstizione che qualcuno poi se li legga, quei “programmi”). La sensazione che prevale, invece, è che le inezie servano in primo luogo a coprire un persistente vuoto di idee e un linguaggio, altrettanto vacuo, appena in grado di scaldare le solite banalità. Ecco dunque perché il candidato-attacchino è quasi costretto ad aggrapparsi alla sua scopa, al suo spazzolone, alla sua colla al fine di certificare (in primo luogo a se stesso) una presenza della quale, probabilmente, in non molti si accorgerebbero.