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Metamorphosis – un viaggio nella musica

Si è chiusa con successo a Merano la prima edizione del festival „Sonora 700“ organizzato dall’associazione Conductus per narrare settecento anni di musica.
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Foto: Conductus

Provate a chiudere gli occhi e a immaginare un mondo senza musica. Non è possibile. A maggior ragione lo è dopo la sera del 21 giugno. Non perché c’era stato il solstizio di questa estate ma perché nella giornata internazionale della musica si era svolto nella chiesa delle Dame inglesi a Merano l‘ultimo dei sette concerti per sette secoli sotto l’egida di Sonora 700 e in collaborazione con Merano Arte. Nel giro di poco più di un’ora il folto pubblico presente nella chiesa romanica fascinosamente illuminata per valorizzarne la scarna presenza di opere pittoriche ha avuto il privilegio di compiere un viaggio in una dimensione altra, laddove spazio e tempo non esistono, o meglio co-esistono in varianti sempre nuove e assolutamente inedite. Perché lo dico?

La partenza era all’insegna di un brano giovanile di Anton Webern (Langsamer Satz) caratterizzato ancora da un’estetica tardo-romantica - mentre questo compositore in seguito sarebbe stato tra i protagonisti della scrittura musicale dodecafonica a Vienna -  per proseguire con Romanian Folk Dances di Béla Bartok in una versione per soli archi. Ricordiamo che a suonare, infatti c’era l’Ensemble Conductus diretto in modo appassionato da Marcello Fera (che era anche la mente - e l’anima - di tutte le sette serate del festival pensato e organizzato nell’ambito di 700xM, ossia il giubileo meranese per celebrare i 700 anni dell‘ordinamento civico). Il titolo del concerto era „Metamorphosis“ e della metamorfosi in musica nel corso del Novecento fino a oggi si sta(va) parlando. Dell‘eclettico John Cage è stato suonato il brano Five dei suoi Number Pieces, i cui singoli titoli richiamano ognuno il numero di musicisti coinvolti, qui cinque per l’appunto. Poi era la volta del francese Olivier Messiaen, morto nel 1992: la sua Danse de la Fureur pour les sept trompettes dal Quartetto per la fine dei tempi mantiene ciò che promette nel titolo benché di sicuro non era facile rendere quel „furore per sette trombe“ nella inedita versione approntata dallo stesso Fera per il suo ensemble di soli archi. Scommessa vinta, a giudicare dal furore dell’applauso che era seguito…

Un altro grande protagonista del secolo scorso – e della serata - era ed è tuttora Arvo Pärt, il grande innovatore venuto dal nord, nel senso che è nato in Estonia dove tuttora vive, nella cittá di Tallin. Del suo stile inventato ex novo lo stesso Pärt ha detto: « Lavoro con pochissimi elementi - una voce, due voci. Costruisco con i materiali più primitivi - con l'accordo perfetto, con una specifica tonalità. Tre note di un accordo sono come campane. Ed è perciò che chiamo questo tintinnabulazione ». La sera del 21 giugno abbiamo sentito questi suoi „tintinnabuli“ originati dagli archi dell‘Ensemble Conductus per il Silounans Song librarsi ancor più liberamente in alto nello spazio architettonico della chiesa benché dettati dal tipico rigore compositivo del suo autore – premiato nel 2011 come „Compositore dell’anno“ ai Classic Brit Awards a Londra. Ci voleva, dopo, la leggerezza spensierata dei ritmi della Clapping music di Steve Reich, interamente „suonata“ dalle mani dei musicisti sotto l’altrettanta leggera eleganza dello stesso Fera, della cui pluriversatilità come musicista abbiamo avuto la prova in più momenti della serata: come compositore in Cellophonia (fu scritto nel 2006 per il violoncellista dell’Ensemble Conductus Nathan Chizzali che l’ha suonato anche l’altra sera), come elaboratore di brani di musica tradizionale in Levar da tavola e come violinista nel secondo bis. Ma procediamo con ordine poiché il finale in crescendo era andato pian piano costruendosi nel tempo, storico e presente. Dai dieci minuti a firma di Albert Mayr, ossia SPOR, il brano commissionato da Conductus al figlio di Josef Mayr-Nusser nel 2008 in memoria del padre che aveva pagato con la vita il proprio „no!“ a Hitler e che quindi ci ha fatto rivivere alcuni dei momenti più terribilmente tenebrosi dello scorso „secolo breve“, si era sfociati direttamente nel brano succitato Levar da tavola che in questa elaborazione di Fera era stato eseguito per la prima volta assoluta trattasi difatti di un brano di musica tradizionale delle quattro province (da Genova ad Alessandria) con solista al piffero (un tipo di oboe popolare) Stefano Valla. Per creare poi un tutt’uno nella scia finale tra l’entusiasmo sotto forma di un applauso durato parecchi minuti da parte del pubblico e quello dei due bis concessi dai musicisti, dove va menzionato soprattutto il secondo, dove Marcello Fera al violino e Stefano Valla al suo piffero si sono lasciati letteralmente trasportare dalle note improvvisando su La neve va col sole (composto dallo stesso Valla). Un perfetto esempio di come anche da uno strumento legato alla musica popolare possa generare tutt’altro spettro sonoro, una volta libero dal diktat delle note scritte.