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Politik | Conflitto

Israele-Palestina: cos'altro aggiungere?

Il dibattito sul ritorno della guerra in Medio Oriente sembra un match tra tifoserie. La violenza polarizza anche i commenti. E alla fine fa vincere i violenti di entrambe le parti, mentre si affievoliscono le voci di pace. Un commento amaro.
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Opposte manifestazioni
Foto: Pixabay
  • Israele Palestina guerra

    E' difficile, non sapevo neanche se scriverlo questo articolo. A cosa può servire l'ennesima condanna delle violenze in corso a Gaza, in Israele e nel resto della regione? Indignarsi per le stragi, certo, ma dopo? Giova alle vittime, frena l'orrore? O fa parte anche questo dello stanco rituale violento che si rincorre da oltre settant'anni in Medio Oriente, ogni volta un po' più atroce? Le torture, gli stupri, gli attacchi a scuole e ospedali lasciano senza parole, sono il nuovo gradino a scendere verso l'abisso. Ma quella scala è stata imboccata da tempo, e da entrambi i lati del muro. 

    Ci si accusa a vicenda per i crimini più nefasti, e in effetti è criminale l'azione terroristica compiuta il 7 ottobre da Hamas e altri gruppi armati palestinesi, con migliaia di omicidi e rapimenti. Ed è altrettanto criminale la reazione militare dell'esercito israeliano, che rade al suolo Gaza causando decine di migliaia di vittime. Dall'esterno, molti commentatori si schierano come tifosi rivangando le reciproche colpe passate. Pochi, pochissimi cercano alternative per il futuro. Al massimo si ripete la vecchia e ormai inservibile formula “Due popoli, due stati”, come se non fosse proprio il nazionalismo etnico uno degli elementi che alimentano il conflitto.

    Non sapevo se scrivere, dunque. E poi cosa dire: se condanni più gli uni degli altri, sei inevitabilmente di parte. Se condanni entrambi allo stesso modo, sei insensibile e non sai distinguere. Non capisci il sentimento israeliano, di chi vive sentendosi accerchiato da ogni lato, in una regione che gli è compattamente ostile. E non capisci gli ebrei nostri concittadini, che devono avere la scorta armata fuori dalle sinagoghe. Oppure dall'altro lato non capisci la tragedia palestinese, di chi si è visto sottrarre con la forza pezzo per pezzo, uliveto per uliveto, la propria terra, la storia, i diritti.

    Se dici di essere vicino a tutte le vittime, sei un inutile pacifista che non sa leggere le responsabilità e i torti. Non ricordi l'omicidio di Rabin, l'Intifada, Sabra e Chatila, lo Yom Kippur, Settembre nero, la guerra dei sei giorni, quella di Suez, l'occupazione delle terre, la nascita di Israele? Ognuno ha le sue storie, le sue ragioni che si rincorrono nel tempo... E poi c'è quella ultima incontrovertibile, la Shoah, per cui ogni critica al governo israeliano rischia l'accusa infamante di antisemitismo.

    Dunque, che senso ha scrivere ancora? E' già stato detto tanto, forse tutto. Pure che Israele e Palestina non sono due entità compatte, hanno grandi differenze al proprio interno: Hamas non è Fatah, Gaza non è Ramallah, Sinwar non è Barghuti, tanto per dirne alcune nel mondo palestinese... così come la maggioranza degli israeliani non ha votato per Netanyahu, anzi molti lo vorrebbero in carcere per i suoi affari poco puliti. Però è anche già stato scritto che proprio la violenza ricompatta i fronti, che il sangue è il miglior collante ideologico e mette a tacere qualsiasi dissenso interno.

    Cos'altro aggiungere allora? Ci sono ancora, per fortuna, voci che resistono. Appelli e testimonianze per “restare umani”, e uscire dalla gabbia delle contrapposizioni. Ma sono sempre meno, sempre più deboli. Anche qui già è stato scritto, ogni ciclo di scontri allontana le parti e le rende reciprocamente meno umane. “Nonostante tutto, i terroristi stanno combattendo con una ostinazione che non ha precedenti nelle guerre israeliane contro gli arabi. Forse l'infrastruttura sarà distrutta, forse la leadership cadrà, ma durante questa guerra nascerà una nuova generazione e si aprirà un periodo che sarà ricordato nella storia del mondo palestinese come un periodo eroico sul quale verranno educate le future generazioni. E poiché i nostri capi e generali non hanno imparato […] e non faranno nulla per usare questa sconfitta dei terroristi come una svolta decisiva per il riconoscimento dei diritti del popolo palestinese, il prossimo confronto, e non ci sarà via di scampo, presto o tardi verrà e sarà sette volte più grande.” 

    Sono parole dal diario di guerra di un colonnello israeliano, Dov Yirmiya. Le ha scritte durante l'invasione del Libano, era il giugno 1982. Cos'altro aggiungere?

     

    Commento pubblicato anche su Alto Adige del 20.01.2024