"...gestire la dissonanza"
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SALTO: per tre appuntamenti, i minuti iniziali dei concerti sono stati dedicati ad altrettanti solisti, interpreti delle culture dei loro paesi di provenienza, o di elezione. Si è ascoltato il senegalese Cheik Sadibou Fall con il suo djembe, il canto guru dell’indiano Bhai Baldeep Singh, e il flauto zen del portoghese Prashantam. Tra le molte musiche delle tradizioni del mondo ha scelto queste. Cosa ha motivato la sua scelta?
Giorgio Battistelli : bisognava iniziare da qualche parte, perché il mondo è molto grande. Ho pensato a musiche di mondi diversi, dall’Africa centrale all’India, fino alla cultura zen. Concezioni e funzioni della musica molto diverse. Musiche brevi, che fossero anche un messaggio politico. Intendevo porre una domanda, non offrire una risposta a cosa significasse una Ouverture “barbara”. Pensavo ad un ascoltatore che tornando a casa riflette, e si chiede “perché ho sentito un musicista africano prima di Haydn?”. Abbiamo proposto l’accostamento di due mondi, due culture, non in conflitto ma che si intersecano.
Lei ha affermato che i suoni diversi da quelli a noi familiari “sono dei corpi apparentemente estranei che possono creare una sorta di vertigine che può anche suggerire un modo diverso di ascoltare Beethoven e gli altri compositori”. Che impressione ha avuto della reazione, ovvero dell’accoglienza, da parte del pubblico?
Il timore che ho avuto è che ci sia stato un malinteso con alcuni, che possano essere state fraintese le nostre proposte. E’ stato il pensiero di un abbonato, ci ha scritto che eravamo stati poco rispettosi verso i musicisti ospiti. “Ouverture barbare” è un titolo apparentemente provocatorio, la definizione “barbare” può sembrare un’offesa. In realtà, se andiamo alla radice, all’etimologia del termine, “barbaro” è la persona straniera, che arriva da fuori, che viene quale ospite. “L'ouverture barbara” è stata intesa come una forma di ospitalità. Abbiamo voluto ospitare, accogliere, un musicista “straniero” nella nostra casa. In generale mi pare l’accoglienza sia stata positiva, il pubblico si è posto delle domande. E poi vi è un elemento che considero molto interessante, la sorpresa. Ho sentito ad esempio dire a due signore “c’è l’Ouverture barbara, chissà cosa sarà questa volta”.
Pensa di essere riuscito nel suo scopo di direttore artistico, ovvero, secondo le sue parole, ad “inquietare” il pubblico?
Sì. E’ un compito difficile, per me, ma credo per ogni direzione artistica di una importante istituzione, quello di rispetta la tradizione, l’aura che vi è attorno, e al contempo non rimanere fermi, ma investire. Quindi sì , credo che ho “inquietato”, ho creato una “turbolenza” in questi primi tre anni. Questo deve servire per ampliare gli orizzonti.
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Recentemente Franco La Cecla, nella terza “Lectio Langer” al Filmclub di Bolzano, ci ha ricordato l’idea di “alterità”, l’idea dell’altro che che non segue i tuoi codici, la langeriana necessità di provare a convivere. Per le Ouverture “barbare” è lecito evocare il pensiero langeriano?
Quella della necessità di convivere è una vera necessità. Questo è il pensiero moderno. Per noi, come europei, come occidentali, l’unica via percorribile è quella di trovare un equilibrio, una mediazione, di quella che io chiamo la “dissonanza”. “Dissonanza” come qualcosa che è diverso dalla nostra cultura. Bisogna accettare e gestire la dissonanza. Questo è il pensiero moderno, è un confronto di culture, sempre nel rispetto della propria identità.
Sappiamo dalle parole di alcuni importanti compositori che la loro musica sarebbe stata diversa se non avessero incontrato quella dei “barbari”. Furono ad esempio i gamelan javanesi per Debussy, la polifonia dei Pigmei Aka per Steve Reich e Gyorgy Ligeti. Nella sua attività di compositore lei è debitore verso qualche musica “barbara”?
Per me è una questione antropologica. Mi sento compositore europeo, italiano, ma mi nutro della molteplicità di cui è composto oggi il mondo. Mi nutro di una cultura eterogenea. Noi tutti ci nutriamo di culture eterogenee. Diversamente sarebbe una ”antimodernità”, non dare respiro ad una società.
Per spiegami ricorro ad un episodio personale. Da studente comprai diversi dischi della collana Unesco dedicata alla culture del mondo. Io e i miei amici del DAMS rimanemmo affascinati dalla musica della nuova Guinea, del Dahomey, della Turchia, e di altre ancora. Ma davanti all’incisione di canti taoisti cinesi rimanemmo attoniti. Non avevamo “accesso” a quella musica. Le è mai capitato di sentirsi così “straniero” in musica?
Certo, continuamente. Ho parlato nel passato spesso di questo con l’antropologo, etnomusicologo, intellettuale Alain Danièlou. Nel momento in cui ci si mette all’ascolto di un prodotto culturale diverso dal nostro, sia una scultura oppure un lavoro teatrale, bisogna guardarla, ascoltarla avendo presente il contesto, la funzione che quell’opera ha in quella determinata società. Quando anni fa vidi una rappresentazione del teatro Nō mi mise a dura prova. Vi era una concezione del tempo totalmente diversa, ed è la stessa complessità e problematicità che possiamo trovare negli ultimi lavori di Stockhausen, o in Morton Feldmann, dove abbiamo una dilatazione del tempo. Nel comporre a volte trovi delle assonanze con culture estranee alla tua. Non sono citazioni, semmai allusioni, punti di contatto.
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“La musica è un linguaggio universale”… che ne pensa?
Si, la musica è un linguaggio universale, ma oggi dobbiamo combattere contro la sua omogeneizzazione. L’aspetto interessante e positivo della globalizzazione è quello della diffusione della musica, dall’altro vi è il rischio di una forma stereotipata, che le cose si assomiglino tutte. Questo in tutte le forme d’arte.
Condivide il pensiero di Terry Riley, per il quale, "Music is the evolvement of the human spirit with sounds", che traduco con "La musica è l'evoluzione dello spirito umano con / attraverso i suoni" ?
Certamente, la musica è sempre un mezzo, un modo, un’espressione che ci sorprende, ci fa sentire nuove forme di sensibilità, di emozione.
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Mi auguro, credo assieme a molti, che ne corso della prossima stagione sinfonica dell’Orchestra Haydn ci siano altre Ouverture “barbariche”, spazio e tempo per le tante affascinanti tradizioni musicali del mondo. Ci può anticipare qualcosa a riguardo?
Le dico volentieri questo. Credo che la funzione di una istituzione come ha Haydn sia quella di mettersi in relazione con la società. Non credo che la Haydn possa cambiare il destino del mondo, possa intervenire ad esempio sul clima, però può aiutare il pubblico a riflettere. In che modo? Ponendo le domande sulle cose che accadono oggi attraverso la musica, sia quella di Tchaikovsky che quella di un musicista zen. Oppure la lettura di una poesia, chi l’ha detto che l’orchestra debba parlare solo di musica? Una istituzione come la Haydn è una istituzione che produce pensieri, produce cultura, non solo musica. E’ chiaro che c’è una orchestra, ma questa è un organismo culturale che deve toccare anche altri linguaggi, produrre pensieri sul nostro presente, sul nostro tempo. Pensieri e domande, domande che sono esistenziali, come hanno fatto Beethoven, Mahler e Schöenberg, oppure estetici, come Satie o Fauré, oppure con la musica impegnata, come Luigi Nono.