Patton, piccolo "miracolo" a Trento
Con il vento della destra postfascista che soffiava gagliardo in tutta Italia – nel centenario “benaugurante” della marcia su Roma – certo in Trentino non ci si poteva aspettare miracoli da un centrosinistra moderato ed esangue, che in quattro anni di fugattismo (il primo governo provinciale a guida Lega Salvini) non ha saputo e voluto proporsi come un’opposizione viva e compatta, perdendo vigore e pezzi (un Pd stanco che ripropone le solite facce, l’ex presidente autonomista della Provincia Rossi che va con Calenda e poi si scalendizza a pochi giorni dal voto, un altro consigliere del Patt de facto transitato in maggioranza…). E così, anche in Trentino, la trasfusione di sangue dalla Lega ai Fratelli d’Italia ha portato alla conferma della prevalenza del centrodestra, ora destracentro, che aveva già trionfato alle elezioni del 2018.
Va detto peraltro che i collegi uninominali della Camera si sono ridotti da tre a due rispetto a 4 anni fa, inglobando nel collegio del capoluogo una maggiore porzione di “valli” e quindi rendendolo più complicato per il fronte progressista. Così a Trento il senatore uscente Andrea de Bertoldi ha battuto brutalmente la capogruppo provinciale Pd Sara Ferrari 41 a 32 (in percentuale arrotondata), 15mila voti di vantaggio rispetto ai meno di 5mila che nel 2018 avevano sancito la prevalenza della leghista Giulia Zanotelli sulla pidina Mariachiara Franzoia (37 a 34 le percentuali), mentre nel collegio di Rovereto la deputata uscente Vanessa Cattoi ha raggiunto il 43%, lasciando la faccia nuova Michela Calzà a oltre 13 punti percentuali di distacco.
Al Senato, altre due vittorie del destracentro: a Pergine, l’uscente fassana Elena Testor ha sconfitto Michele Sartori, già sindaco di Levico, 44 a 31; a Rovereto una sempreverde Michela Biancofiore in trasferta ha soffiato il posto per soli 217 voti (36,8 a 36,6%) all’uscente dinamica Donatella Conzatti, ex forzista transitata ad Azione/Italia Viva e dunque candidata dell’Alleanza democratica che in Trentino ha riunito centrosinistra e calendian-renziani.
Questa alleanza ha consentito l’unico piccolo ma significativo miracolo riuscito al centrosinistra in Trentino: la vittoria di Pietro Patton, 65 anni, economista e manager, già dirigente generale del Comune di Trento (dove ha incassato il 50% dei voti) e già al timone della Cantina di Lavis, volto nuovo in politica, che con un brillante 41,1% e oltre 5mila voti di vantaggio, è prevalso sulla deputata uscente della Lega Martina Loss (36,6%). Un successo, quello di Patton, costruito pazientemente nelle valli dove nuotava controcorrente ma sapeva quali argomenti toccare. Da tecnico, prima che da politico. Un successo che fa il paio con quello di Spagnolli nel collegio senatoriale di Bolzano e che affida a Patton la grave responsabilità di rappresentare a Roma quel pezzo del Trentino che è ancora vivo e non si è lasciato sedurre dal melonismo.
Passando ad analizzare le performance dei partiti, facendo le medie dei risultati nei due collegi uninominali della Camera, in quattro anni la Lega è precipitata dal 27 all’11 per cento, mentre Fratelli d’Italia è deflagrata dal 3 (e solo 1,4% alle provinciali del 2018) al 25%. Forza Italia quasi dimezza il consenso in termini percentuali (dall’8,5 al 4,7) ma si tiene comunque due parlamentari perché era dalla parte giusta del vento. Il Partito democratico, paradossalmente, ha inutilmente migliorato il suo risultato dal 19 al 22 per cento, mentre gli autonomisti del Patt con il simbolo Svp, orgogliosamente blockfrei ma sempre modesti come risultato nazionale, passano dal 5 al 5,85%. Restando al centro, Azione/Italia viva si porta a casa l’8 e mezzo, che è servito ad eleggere Patton nel collegio senatoriale di Trento ma non è bastato negli altri due match testa a testa. E i 5 Stelle? Dal trionfale 24% del 2018 precipitano al 6. Fuori dai giochi.
Il destracentro è arretrato in modo indolore al 47% dal 52% del centrodestra nel 2018, mentre il centrosinistra è rimasto fermo al suo 40%
Ragionando sui grandi blocchi, il destracentro è arretrato in modo indolore al 47% dal 52% del centrodestra nel 2018, mentre il centrosinistra è rimasto fermo al suo 40%: pacifico (algebricamente, non politicamente) osservare che il 6% del voto autonomista è proprio quello che gli è mancato, ieri, per pareggiare il conto.
Michele Sartori, esponente del centrosinistra sconfitto al Senato di Pergine, ha commentato, dopo aver riconosciuto sportivamente la sconfitta: “Questa campagna, così inattesa e rapida, ha accelerato il processo di creazione di una nuova forza politica, un centrosinistra autonomista capace di tornare a dialogare con la comunità sul territorio e a farlo senza arroccarsi sulle posizioni del passato e senza replicare i toni di scontro fra civiltà delle campagne nazionali”.
Sartori è molto, molto ottimista. Mancano poco più di dodici mesi alle provinciali del 2023 e se il centrosinistra (autonomista? mah, il Patt non sai mai da che parte sta) non cambia marcia, stile e look, sarà dura impedire la riconferma alla presidenza della Provincia di Fugatti, il quale peraltro dovrà fare i conti con FdI: già la Lega trentina ha “versato” due consigliere provinciali (Ambrosi e Rossato) sul conto corrente del melonismo ascendente e ne ha perso un altro (Job) per strada. Oggi ne ha 11 su 35. Ma questi sono problemi del destracentro. Il centrosinistra non può certo attendere che siano gli avversari a risolvere i suoi problemi a livello provinciale. Magari potrebbe cercare di far tornare alle urne qualche migliaio dei 125mila trentini che ieri hanno fatto altro. Un pesante record negativo di partecipazione: 69,6%, giù del 10% rispetto al marzo 2018. Urgente è trovare volti nuovi credibili. E riconnettersi con il (votante o no) popolo sovrano.