Faccia a faccia con il progresso
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Zebra: Che lavoro svolge, insieme al Suo team, presso il Human-Centered Technologies and Machine Intelligence Lab?
Il nostro obiettivo è sviluppare sui dispositivi che studiamo la capacità di leggere una determinata situazione e in base a questo siano in grado di prendere decisioni operative e compiere azioni nel mondo reale. I sistemi – le macchine – devono disporre di un’intelligenza che permetta loro di comprendere le azioni che devono svolgere. Si valutano poi i compiti che essere umano e dispositivo possono svolgere insieme e si decide chi prende incarico quale azione.Angelika Peer: Può fare un esempio concreto?
Certo. Nel nostro laboratorio abbiamo sviluppato un robot deputato all’assistenza di persone con difficoltà di deambulazione. Si tratta di un dispositivo volto al sostegno delle persone anziane che necessitano di assistenza per camminare, stare in piedi e raccogliere oggetti da terra. Sistemi di questo tipo possono essere molto utili anche nel caso di pazienti dimessi dall’ospedale o mentalmente un po’ confusi. In quel caso, inserendo una destinazione o un obiettivo, il robot può guidare la persona all’interno di uno spazio predefinito, la aiuta a manovrare il dispositivo e a evitare eventuali ostacoli lungo il cammino. Di recente abbiamo sviluppato un esoscheletro che consente alla persona che lo “indossa” di mantenere una postura dritta e una macchina con compiti di produzione.Il mio è un lavoro interdisciplinare, che mi porta a varcare la soglia di altri ambiti del sapere
Come si sviluppa il lavoro di ricerca del vostro laboratorio?
Lavoriamo principalmente sulle metodologie, quindi l’applicazione concreta di ciò che sviluppiamo si trova a un livello successivo. Metodologie molto simili possono essere applicate a tutti i dispositivi, da quelli medici a quelli utilizzati nel settore produttivo. Insieme al mio team mi concentro pertanto sul progresso e sull’avanzamento delle metodologie che stanno dietro a queste capacità operative.Qual è l’aspetto più affascinante della Sua professione?
Il mio è un lavoro interdisciplinare, che mi porta a varcare la soglia di altri ambiti del sapere: dalla riabilitazione, alla terapia, dall’assistenza geriatrica al settore produttivo. Ricevendo input da diverse aree della conoscenza continuo a imparare. Poi certo è una bella soddisfazione vedere che i sistemi sui quali lavoriamo hanno un effetto positivo nella vita di tante persone.L’automazione è già molto presente nella nostra quotidianità. Secondo Lei quanto ne siamo consapevoli?
Credo che non siamo ancora del tutto consapevoli di quanto già oggi ci affidiamo a questo tipo di tecnologia. Con l’avvento di ChatGPT, (modello di linguaggio realizzato da OpenAI, basato su intelligenza artificiale e machine learning) l’interazione uomo-macchina è divenuta forse più visibile, ma vedo che spesso le persone ignorano i meccanismi e il lavoro che regolano questa tecnologia e i procedimenti secondo i quali opera. Ciò è pericoloso, perché è evidente che il sistema è ancora addestrato su dati che presentano molti bias.L’intelligenza artificiale rischia quindi di compiere discriminazioni?
Il sistema apprende in base ai testi che ha a disposizione. Questo significa che le discriminazioni e i bias presenti nella società si riflettono nelle macchine che programmiamo. Per fare un esempio, un mio collega attualmente sta studiando proprio ChatGPT e ha rilevato che se si richiede al sistema di formulare una lettera di raccomandazione per un uomo o per una donna si noteranno molte differenze. La scelta degli aggettivi che la macchina utilizzerà sarà diversa in base al genere della persona che interagisce con lei. Da questa prospettiva il nostro compito è capire come rendere più trasparente il sistema.Cosa possono fare invece gli utenti?
Sarebbe auspicabile che gli*le utenti in un certo senso si assumessero maggiori responsabilità, ovvero comprendendo come funzionano questi sistemi e quali responsabilità hanno quando decidono di interagire con e attraverso essi. Il percorso per acquisire gli strumenti necessari a questo scopo dovrebbe cominciare già a scuola.Cosa proporrebbe?
Sarebbe utile potenziare l’insegnamento volto a preparare gli*le studenti*esse all’interazione con la tecnologia e i media e al loro utilizzo, portando alla luce i meccanismi alla base di questi strumenti. Ritengo necessario formare anche gli*le insegnanti, dato che nemmeno loro a volte hanno gli strumenti per orientarsi in questo mondo. Fare questo consentirebbe ai*lle giovani di distinguere il vero dal falso – un’operazione sempre più complicata –, e imparerebbero così a non accettare qualsiasi contenuto senza farsi domande.Ci troviamo spesso davanti a decisioni etiche difficili, perché non c’è un precedente a cui fare riferimento
Quando si parla di ricerca e di interazione uomo-macchina un tema importante è l’etica. Come vi muovete in questo senso? Esistono linee condivise e regole chiare da seguire?
Non ci sono ancora linee guida univoche. Esiste un ambito della ricerca, la roboetica, che si dedica a questo tema specifico. Con il nostro lavoro esploriamo nuovi campi e ci troviamo davanti a decisioni difficili da prendere, perché spesso non c’è un precedente a cui fare riferimento. Noi possiamo iniziare il lavoro di ricerca solo dopo aver ottenuto l’approvazione del Comitato etico dell’università. In generale, la domanda a cui rispondere è dove vogliamo arrivare. Bisogna poi considerare che l’etica è il prodotto di una società e ciascuna società può averne un’idea diversa e quindi utilizzerà la tecnologia a scopi per noi discutibili.La politica che ruolo gioca in questi termini?
La politica deve recuperare molto terreno. La comunità scientifica da tempo chiede alla politica di mettersi al passo ed elaborare delle regole, per evitare che un giorno la tecnologia sarà fuori dal nostro controllo.Senza aprire scenari distopici, sono molti i timori che accompagnano il binomio uomo-macchina. Molti, per esempio, ritengono che le macchine ci ruberanno il lavoro. Quanto sono realistiche queste paure?
Non penso che questo avverrà. Le macchine hanno bisogno di manutenzione e programmazione, quindi direi piuttosto che il lavoro cambierà e probabilmente lavoreremo un po’ meno. La domanda da porsi a mio avviso è un’altra, ovvero quanto sarà ancora maggiore la pressione performativa nella nostra società e quanto in là ci vorremo spingere. La scelta è sempre nelle mani dell’essere umano.Come giudica il livello della ricerca in Italia rispetto agli altri contesti – Germania, Inghilterra – in cui ha studiato e lavorato?
In Italia il livello della ricerca in ambito tecnologico è buono, ma ci sono alcuni aspetti dove dobbiamo migliorare. Forse rispetto ad altri Paesi si fa un tipo di ricerca diverso, più teorico. Questo perché i fondi messi a disposizione dal Ministero di solito sono pochi e quindi non è possibile acquistare gli strumenti e i dispositivi necessari. Nel nostro Paese, inoltre, non è semplice trovare lo spazio in cui adibire un laboratorio. All’estero i finanziamenti alla ricerca sono più cospicui e, potendo acquistare la tecnologia per la sperimentazione, si ha un approccio più pratico. In alcuni Paesi, inoltre, la ricerca fa i conti con un sistema più agile dal punto di vista burocratico e fiscale rispetto a quello italiano.
Quando nasce la Sua passione per la tecnica?
Mio padre era ingegnere elettronico e a casa nostra c’erano ovunque apparecchi, cavi e tutto quello che aveva a che fare col suo lavoro. Per me erano come giocattoli, non avevo alcuna paura di avvicinarmici e metterci le mani. A scuola poi sono sempre stata affascinata dalla matematica e dalle materie scientifiche in generale. Alle superiori alcuni insegnanti sono stati una vera e propria fonte di ispirazione e hanno giocato un ruolo importante nella scelta di iscrivermi alla TU di Monaco.Le aziende piccole e medie consentono alla tecnologia di fare grandi passi avanti
Nel 2017 è ritornata in Italia presso unibz. Quali sono gli aspetti che potrebbero favorire il cosiddetto “rientro dei cervelli”?
Oltre ovviamente a una retribuzione adeguata, ad attrarre scienziati*e e ricercatori*rici può contribuire la presenza di compagnie high-tech. Parlo delle aziende piccole e medie, perché sono loro, e non i grandi colossi, a consentire alla tecnologia di fare grandi passi avanti. Sul nostro territorio, il NOI Techpark favorisce il ritorno sul territorio degli scienziati, italiani e non. Partendo dal centro di ricerca si possono creare degli spin-off, piccole aziende e dare vita al circuito virtuoso che porta all’innovazione.Da donna come ha affrontato un mondo, quello scientifico e tecnologico, prettamente maschile?
Il mondo scientifico è da sempre dominato dagli uomini. Alle superiori in classe eravamo solo due ragazze e ormai le volte in cui mi trovo a essere l’unica donna nella stanza non ci faccio nemmeno più caso. Capisco però che per le giovani questa situazione possa fare un po’ paura. Io ho sempre tenuto a mente che, se si vuole raggiungere un obiettivo e si ha una passione, non bisogna ascoltare quello che dice la società.Cosa si può fare per avvicinare più donne alla ricerca tecnologica e scientifica?
La scienza ancora oggi viene “venduta” e indirizzata agli uomini, perché si parla spesso di grandi infrastrutture e macchine. Bisognerebbe porre maggiormente l’accento sull’interdisciplinarietà della ricerca tecnologica. È risaputo che le donne sono più interessate e capaci a lavorare in un ambito interdisciplinare.Quali saranno le sfide future del laboratorio da Lei coordinato?
È difficile da prevedere, perché ci sono così tanti cambiamenti in termini di tecnologia disponibile. Sarebbe interessante riuscire a generare i medesimi comportamenti per diversi tipi di robot. Quando le capacità che insegniamo loro saranno trasferibili tra diversi tipi di macchine, potremo compilare un database che questi robot potranno condividere tra loro. A mio avviso questo è al contempo uno degli aspetti da controllare. Noi umani per apprendere qualcosa dobbiamo non possiamo semplicemente inserire una placca e condividere secoli di informazioni, ma abbiamo bisogno di tantissimo tempo. Per fare questo ai robot basterebbe invece un battito di ciglia. Anche in questo caso è doveroso decidere fino a che punto possiamo spingerci. Guardando alla ricerca relativa al Brain Computer Interface (mezzo di comunicazione diretto tra un cervello e un dispositivo esterno) il potenziale per accrescere la nostra conoscenza è infinito. Anche qui, la domanda è la stessa: “dove tracciamo il limite?”. La responsabilità di decidere sta a noi.Cosa raccomanda a chi guarda con scetticismo alla tecnologia?
Al pubblico chiedo di mantenere un atteggiamento di apertura e di confrontarsi con le nuove tecnologie. Anche se non si è interessati*e a usarle, la tecnologia e l’automazione saranno sempre più presenti nella nostra società. Ritengo quindi importante capire a cosa servono e come funzionano i dispositivi tecnologici, perché come per tante altre cose della vita, è soprattutto quello che non si conosce a farci paura. -
Angelika Peer, originaria di Valdaora, ha studiato Ingegneria elettrica e Tecnologia dell’informazione alla Technische Universität di Monaco di Baviera, dove ha conseguito anche il dottorato di ricerca, specializzandosi nel campo dei sistemi di controllo. Ha insegnato Ingegneria dell’Automazione alla Facoltà di Ingegneria Elettrica e Informatica della TUM e dal 2014 ha svolto ricerche presso l’University of the West of England di Bristol, dove ha concentrato la sua ricerca nei campi della telepresenza e della teleazione. Dal 2017 è professoressa ordinaria presso la Facoltà di Ingegneria di unibz, per la quale coordina il laboratorio di ricerca Human-Centered Technologies and Machine Intelligence Lab con sede presso il NOITechpark di Bolzano.
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Questo articolo è tratto dall'ultimo numero del giornale di strada di zebra.