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Gesellschaft | Gaza Calling 3

Il delirio di Netanjahu

Attraverso i social media ci arrivano anche le voci e le testimonianze di attivisti e giovani israeliani, che cercano in tutti i modi di manifestare il loro dissenso.
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Netanjahu
Foto: Tageschau
  • Una settimana fa i palestinesi di Gaza aspettavano l'esito delle trattative per una possibile tregua. Ora aspettano l'ultimo atto della tragedia di cui sono vittime. Le loro condizioni di vita non sono cambiate: un milione e mezzo di sfollati, la metà bambini, stipati in un territorio che prima, già sovraffollato, ospitava 300 mila persone. La maggior parte di loro è al freddo, in tende improvvisate e bagnate. Molte famiglie nel corso di questi mesi si sono spostate già quattro, cinque volte, mancano cibo, acqua pulita, vestiti, coperte, scarpe….manca tutto. 
    Ma ora si è aggiunta la paura per l'arrivo imminente dei carri armati israeliani annunciato da Netanyahu. Gli sfollati stanno alla frontiera con l'Egitto, alle loro spalle il muro che l'Egitto ha ingrandito e rinforzato con filo spinato per impedire un eventuale esodo. E dove ha schierato i suoi carri armati minacciando Israele di sospendere gli accordi di pace del ‘67.
    Tutta la comunità internazionale sostiene che un’operazione di terra a Rafah sarebbe un disastro, ma i palestinesi restano lì, senza vie di fuga, in attesa di ricevere indicazioni dall'esercito israeliano su dove dirigersi. Nelle ultime notti hanno sopportato attacchi durissimi, in cui sono stati bombardati quartieri residenziali, moschee ed una parte del campo profughi, con il conto delle vittime che continua a salire, sono ormai 28.500. L'esercito ha comunicato di aver liberato con questa operazione due ostaggi israeliani. Alcuni organi di stampa riportano la notizia che altri tre ostaggi sarebbero rimasti uccisi nella stessa operazione.
    Oggi Netanyahu ha chiesto alle agenzie umanitarie di collaborare con il governo israeliano per evacuare i civili da Rafah, ma la Croce rossa internazionale ha fatto sapere che questa operazione è praticamente impossibile.
    Nel tempo di una settimana la situazione è precipitata: solo mercoledì scorso, dopo varie giornate di incontri diplomatici al Cairo con la mediazione di Egitto, Qatar e Stati Uniti, era arrivata la proposta di Hamas: in sintesi, una tregua di 135 giorni per consentire in tre fasi lo scambio tra i 136 ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas e 1500 prigionieri politici palestinesi, oltre alla liberazione di tutti i palestinesi minorenni, donne, malati ed anziani, detenuti nelle carceri israeliane. In questo lungo periodo di sospensione dei combattimenti avrebbe dovuto essere elaborato un piano per la cessazione definitiva della guerra, con il completo ritiro delle forze armate israeliane da Gaza.

  • Foto: Upi
  • „Si sono susseguiti gli appelli a Israele affinché eviti un attacco di terra in questa zona: dall'Unicef, alle Nazioni Unite, all'Oms, tutti chiedono ad Israele di fermarsi.“

     

    Nessuna controproposta è arrivata da Israele: il giorno stesso il premier Netanyahu è apparso in televisione per comunicare agli israeliani e al mondo che non ci sarà nessun negoziato e per ribadire che la distruzione totale di Hamas è l'unica soluzione possibile. La vittoria decisiva sarebbe ormai a portata di mano. Il giorno successivo Netanyahu ha ordinato all'esercito israeliano di muoversi verso Rafah.
    Dopo queste dichiarazioni si sono susseguiti gli appelli a Israele affinché eviti un attacco di terra in questa zona: dall'Unicef, alle Nazioni Unite, all'Oms, tutti chiedono ad Israele di fermarsi.
    Un appello affinché Israele rinunci ad un'operazione di terra nella città del sud è arrivato anche da Borrel, responsabile della politica estera della comunità europea; altri appelli arrivano dall’Inghilterra, dalla Germania, dalla Cina. Biden, preoccupato in questo momento di mantenere il consenso della comunità ebraica americana senza perdere quello della comunità araba, ha ribadito il sostegno ad Israele ed ha chiesto al premier israeliano di non iniziare nessuna operazione militare a Rafah prima di aver messo a punto un piano credibile e realizzabile per evacuare la popolazione civile.
    Di fronte agli appelli della comunità internazionale Netanyahu ieri per l’ennesima volta, ha risposto che rinunciare all'operazione di terra a Rafah significherebbe rinunciare alla distruzione di Hamas, primo obiettivo di Israele, ed ha addirittura dichiarato “tutti quelli che ci chiedono di fermarci sono complici di Hamas”.

     

     “Tutti quelli che ci chiedono di fermarci sono complici di Hamas”.
    Benjamin „Bibi“ Netanjahu

  • Ma al di là degli appelli verbali, nessuno dei governi occidentali alleati di Israele ha finora mai accennato alla possibilità di passare a strumenti di pressione più incisivi, quali l'interruzione della fornitura di armamenti o la sospensione di rapporti economici o commerciali. Solo poche ore fa per la prima volta, Borrel ha dichiarato che “gli Stati Uniti dovrebbero rivedere l’invio di armi a Israele”. Insieme agli Stati Uniti dovrebbero farlo anche parecchi paesi europei, tra cui l’Italia. E forse è troppo tardi.
    Diverse associazioni ebraiche, come la Jewish Voice for peace degli Stati Uniti, che conta 700 mila associati, chiedono al governo americano di togliere il sostegno ad Israele rispetto a questa guerra ed in generale rispetto alla politica repressiva e violenta di Israele verso i palestinesi. Anche in Italia 54 ebree ed ebrei laici hanno pubblicato una lettera appello, che sta ricevendo sempre più adesioni: denunciano la risposta sconvolgente del governo israeliano all'attacco di Hamas e l'assenza di un piano per uscire dalla guerra. I firmatari della lettera si dissociano dalle posizioni acritiche delle comunità ebraiche italiane, affermando che la critica alle politiche di Israele non è antisemitismo. 

    „Diverse associazioni ebraiche, come la Jewish Voice for peace degli Stati Uniti, che conta 700 mila associati, chiedono al governo americano di togliere il sostegno ad Israele rispetto a questa guerra ed in generale rispetto alla politica repressiva e violenta di Israele verso i palestinesi.“

  • Foto: Jewish Voice
  • Spostando lo sguardo all’interno di Israele, sebbene Netanyahu stia perdendo molti consensi, può contare su una parte di popolazione comunque convinta della necessità di continuare questa guerra. Subito dopo l'annuncio del premier, la settimana scorsa quindici mila israeliani hanno risposto all'appello di soldati e gruppi di estrema destra ed hanno manifestato a sostegno della politica di Netanyahu: nessun negoziato, la guerra deve continuare fino alla distruzione di Hamas. E rispetto agli ostaggi nelle manifestazioni si dice ciò che il governo non ha il coraggio di dichiarare: bisogna accettare qualche sacrificio per vincere. Il 4 febbraio dal kibbutz di Zikim, nel sud di Israele, è partita una marcia di estremisti che chiedono apertamente la colonizzazione della striscia di Gaza e l'espulsione della popolazione palestinese. Sullo sfondo l'immagine più triste: gruppi di manifestanti israeliani, in prima fila le Mothers of soldiers, che da due settimane al porto di Ashdod e al valico di Kerem Shalom stanno bloccando il passaggio di cibo e medicine destinati ai civili di Gaza.

     

    „Accanto a questa parte di Israele che non vuole la fine della guerra e che anzi è pronta alla fase finale del più grande massacro dal dopoguerra ad oggi, esiste un'altra parte che non condivide o non condivide più queste posizioni“

     

    Ma accanto a questa parte di Israele che non vuole la fine della guerra e che anzi è pronta alla fase finale del più grande massacro dal dopoguerra ad oggi, esiste un'altra parte che non condivide o non condivide più queste posizioni. Le stesse famiglie degli ostaggi e gli ex ostaggi si appellano disperatamente a Netanyahu, sostenendo che se continuerà con il tentativo di smantellare Hamas non ci saranno più ostaggi vivi da liberare. Lo stesso ha affermato l'ex generale Eisenkot, membro del consiglio di guerra di Israele: anche secondo lui la liberazione degli ostaggi e la distruzione di Hamas non sono obiettivi conciliabili.

  • Foto: Upi
  • Attraverso i social media ci arrivano anche le voci e le testimonianze di attivisti e giovani israeliani, che cercano in tutti i modi di manifestare il loro dissenso al massacro in atto e in generale alle politiche israeliane nei confronti dei palestinesi: per questo vengono denunciati, a volte arrestati, sottoposti a perquisizioni o minacciati. 
    Come Meir Baruchin, un insegnante israeliano di storia ed educazione civica di 60 anni, che è stato arrestato e sospeso dall'insegnamento per aver postato una foto di bambini palestinesi uccisi a Gaza dall'immediata reazione di Israele all'indomani dell'attacco di Hamas del 7 ottobre. In seguito scarcerato e reintegrato a scuola, diversi studenti l'hanno accolto con sputi e insulti ed hanno abbandonato le sue lezioni. “Conosco centinaia di insegnanti che hanno paura a parlare “ ha dichiarato l'insegnante in un'intervista. “Il mio licenziamento è stato un messaggio deliberato, l'obiettivo è quello di mettere a tacere qualunque voce critica. Il pubblico in Israele non sa cosa viene fatto in suo nome, né in Cisgiordania né a Gaza”.
    Lo stesso sostiene la televisione franco- tedesca Arte che ha realizzato un reportage che evidenzia come i cittadini in Israele ricevano informazioni principalmente dal portavoce dell'esercito, che ogni sera li aggiorna sul conflitto in una conferenza stampa trasmessa in diretta dalla tv nazionale.Non si parla delle sofferenze della popolazione civile che vive nella striscia e solo pochi giornalisti israeliani mettono in dubbio le notizie ufficiali.

  • Meir Baruchinun: insegnante israeliano che è stato arrestato e sospeso dall'insegnamento per aver postato una foto di bambini palestinesi uccisi a Gaza Foto: Youtube
  • Piccole minoranze di militanti politici, pacifisti e attivisti contro l'occupazione cercano di fare sentire il loro dissenso attraverso pagine Fb come Refuser Solidarity Network, e di organizzare piccole manifestazioni per chiedere la fine della guerra ed azioni simboliche per dare un volto ai palestinesi uccisi in massa a Gaza. Anche loro raccontano di minacce, fermi ed arresti. Il 26 dicembre Tal Mitnick, israeliano di 18 anni è stato condannato al carcere dal tribunale militare per essersi rifiutato di combattere nell'esercito israeliano.
    “Questa terra ha un problema” ha dichiarato il ragazzo al momento della condanna “ci sono due nazioni che hanno un legame indissolubile ed innegabile con questo posto. Anche con tutta la violenza del mondo non si possono cancellare il popolo palestinese e quello ebraico e la loro connessione con questa terra. Il problema è il suprematismo, la convinzione che essa appartenga ad un solo popolo. Né la violenza di Hamas né quella dello stato israeliano possono risolvere la situazione. Non ci può essere una soluzione militare ad un problema politico...Mi rifiuto di credere che più violenza porterà sicurezza. Mi rifiuto di partecipare ad una guerra di vendetta”.
    Lo stesso dirà tra pochi giorni una ragazza di 18 anni, quando a sua volta sarà giudicata per lo stesso reato.