Autonomia d’esportazione?
Autonomia sotto assedio, autonomia provvisoria, ricerca di rassicurazioni dall’ancoraggio internazionale. Mai come in questa fase crescono le pressioni esterne e interne per un superamento o quanto meno un profondo aggiornamento dell’autonomia speciale. Esterne soprattutto da parte del legislatore nazionale, dalle regioni limitrofe, dalla dottrina, dal clima sociale e politico complessivo che continua a ribadire, non senza una buona dose di superficialità, il nostro status di privilegiati. Interne da parte di chi da queste pressioni trae slancio per il progetto separatista, ma anche da chi, con maggior realismo (almeno per ora) riconosce la necessità di riforme profonde all’assetto istituzionale – e anche queste richieste di riforma si ramificano a loro volta a seconda degli aspetti che si ritengono superati: le competenze per alcuni, le regole della convivenza per altri, il rapporto tra organi e livelli nella forma di governo provinciale e regionale per altri ancora.
Cambiamenti
In sintesi, se non di autonomia in crisi, si deve certamente parlare di autonomia in profondo mutamento. Com’è normale che sia dopo che vari fattori hanno contribuito a togliere il tappo che ha per troppo tempo compresso, ingessandolo, il nostro statuto e il nostro “contratto sociale”.
Può apparire paradossale allora che proprio in un momento di ridiscussione e ridefinizione della nostra autonomia, se ne proponga da diverse parti l’esportabilità ad altre e diverse realtà. Proposte che arrivano anche da fonti assai autorevoli. Da ultimo, con riferimento all’Ucraina, niente meno che dal Ministro degli esteri italiano, dall’ex Presidente Durnwalder, e da settori della diplomazia russa. Rinvigorendo un dibattito che, almeno dalle nostre parti, si era già sviluppato a partire almeno dalla seconda metà degli anni ’90, a fronte di conflitti nell’ex Jugoslavia e nell’ex Unione sovietica. Ma se quelli erano gli anni d’oro dell’autonomia (non solo della nostra, ma più in generale dell’idea di autogoverno in un quadro multilivello), oggi il contesto è cambiato.
Non è in mutamento (in crisi per alcuni, in evoluzione per altri) solo la nostra piccola provincia. Le spinte verso l’indipendenza e i micro-stati, spesso in opposizione a politiche centralizzatrici da parte degli stati nazionali e talvolta condite da una facile enfatizzazione di elementi etnico-culturali, sono comuni a tante aree. Per limitarsi all’Europa si pensi a Catalogna e Scozia, e ai meno mediatizzati casi basco e fiammingo, o ai conflitti più o meno accesi al di là dell’ex “cortina di ferro”: Kosovo, Repubblica serba di Bosnia, Transnistria, Gagauzia, e potenzialmente diverse altre regioni, fino alla drammatica situazione della Crimea prima e del Donbass nell’est dell’Ucraina poi.
Esportare o no?
E così viene (torna) di moda l’idea di esportare l’autonomia. Operazione in sé non priva di fascino e astrattamente non insensata. Ma che rischia, se affrontata in modo superficiale, di produrre danni. Un po’ (sia pure in piccolo, si spera) ciò che è successo con l’idea americana dell’esportazione della democrazia. Anche in questo caso, come si può non essere d’accordo in linea di principio? E tuttavia i risultati di un approccio acritico e poco meditato sono sotto gli occhi di tutti.
E allora conviene porsi qualche domanda rispetto a cosa esportare, dove e perché.
È interessante notare che l’esportazione del “modello Sudtirolo” viene discussa solo in relazione ad aree caratterizzate da conflitti violenti e (erroneamente) collegati al fallimento della convivenza tra gruppi etnico-linguistici diversi, come nel caso del Donbass. E qui già si annidano i primi errori.
Perché la nostra autonomia è stata disegnata come prevenzione di un conflitto che stava esplodendo, e non come reazione a uno scontro già degenerato sul piano militare. Ed è facile supporre che se la violenza fosse esplosa in modo dilagante e non solo estemporaneo la sua soluzione istituzionale non avrebbe funzionato. Per il semplice motivo che questa presume una certa dose di cooperazione tra i gruppi che da noi è stato ancora possibile recuperare, mentre altrove pare assai improbabile.
E perché si associa sempre la nostra autonomia alla soluzione del conflitto etnico (non è sbagliato, anche se è un po’ semplicistico), il che porta a vedere conflitti etnici anche dove questi sono di ben altra natura. Nulla di “etnico” (un concetto che posso intuire ma non capire: che diavolo significa, in definitiva?) e neppure di linguistico nell’Ucraina orientale. Dove la lingua dominante se non esclusiva è il russo, e lo scontro non è tra culture (etnie? razze?) diverse, ma tra aree geopolitiche.
Autogoverno e buon governo
Inoltre, l’idea di guardare al nostro modello solo per aree di (presunto) conflitto etnico e di (reale) scontro violento, e non per altre realtà dove magari l’elemento etnico-linguistico è più marcato ma semplicemente è meno o per nulla violento (il Paese basco, le Fiandre) sembra un’ammissione di inefficacia della parte che invece è forse più forte e caratterizzante nella nostra autonomia: l’autogoverno e il buon governo. Che non possono che essere il primo e imprescindibile mattone dell’edificio dell’autonomia e che invece vengono considerati quasi secondari. O peggio ancora la naturale conseguenza dell’autonomia attribuita ad un gruppo (etnico, naturalmente). Il che non costituirebbe un buon biglietto da visita per il “prodotto” che si vorrebbe esportare.
Infine, non va dimenticato che l’autonomia non è solo un’architettura istituzionale, per quanto questa sia fondamentale. E sia l’unica cosa almeno astrattamente esportabile. L’autonomia è anche l’insieme di una serie estremamente complessa di fattori, tra i quali rientrano anche il momento storico, il quadro internazionale, il ciclo economico, la posizione geografica e, non ultima, la fortuna.
Il che non significa che aree assai meno fortunate della nostra non possano beneficiare della nostra esperienza e trarne qualche spunto. Ma evitiamo almeno il paradosso di magnificare la nostra autonomia all’esterno e denigrarla all’interno. Essa è un prodotto per il (consapevole…) consumo interno ben più che un prodotto d’esportazione.
Il ragionamento di Palermo lo
Il ragionamento di Palermo lo trovo pertinente e assolutamente coerente con quanto da sempre aveva sostenuto rispetto alla possibilità di esportare il modello locale. Esso è frutto dell'epoca nel quale è stato scritto lo Statuto e in altre realtà non potrebbe essere riproposto. Certamente l'architettura istituzionale del nostro Statuto richiede un aggiornamento e mi ora che una parte della Classe dirigente locale lo abbia compreso sostenendo la convenzione che a breve passerà al vaglio del Consiglio Provinciale. La strada è ancora lunga, ma averla intrapresa è già un segnale positivo. Vedremo poi nel merito se sarà la rondine annuncerà la primavera.
Il ragionamento di Palermo lo
Il ragionamento di Palermo lo trovo pertinente e assolutamente coerente con quanto da sempre aveva sostenuto rispetto alla possibilità di esportare il modello locale. Esso è frutto dell'epoca nel quale è stato scritto lo Statuto e in altre realtà non potrebbe essere riproposto. Certamente l'architettura istituzionale del nostro Statuto richiede un aggiornamento e mi ora che una parte della Classe dirigente locale lo abbia compreso sostenendo la convenzione che a breve passerà al vaglio del Consiglio Provinciale. La strada è ancora lunga, ma averla intrapresa è già un segnale positivo. Vedremo poi nel merito se sarà la rondine annuncerà la primavera.