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Politik | Avvenne domani

Pane e Pacchetto

Un discorso di Alois Mock, una strage a Sarajevo e i "giochi di guerra" nella realtà altoatesina.

Per uno di quegli intrecci che uniscono la cronaca e le vicende umane, le celebrazioni del venticinquesimo anniversario della chiusura della vertenza internazionale sull'Alto Adige, hanno finito per coincidere con la scomparsa dell'ex Ministro degli esteri austriaco Alois Mock che, di quegli avvenimenti ormai lontani, fu uno dei maggiori protagonisti.

Molte cose si sono dette sull'uno e sull'altro avvenimento. La figura di Mock è stata celebrata come quella di uno dei politici austriaci più importanti del secondo dopoguerra, di un grande europeista, di un amico fedele della causa sudtirolese. A tutto ciò vorremmo aggiungere qualcosa, ricordando  le parole pronunciate in quella tarda primavera del 1992, dal Ministro Mock proprio in relazione al fatidico avvenimento della chiusura del Pacchetto. Una frase molto significativa e sulla quale, ancor oggi, varrebbe la pena di riflettere a lungo.

"Die Medien konfrontieren uns Tag fürTag mit aufrüttelnden Berichten, in denen vom blutigen Kam pf zwischen Angehörigen verschiedener Vol ksgruppen die Rede ist. Intoleranz und Nationalitätenhaß scheinen fast unbesiegbar zu sein. Inmitten all dieser tragischen Entwicklungen kann Österreich in diesen Tagen - gemeinsam mit Italien - in der Südtirol-Frage einen sehr beachtlichen Kontrapunkt setzen : In diesem Falle ist es gelungen, einen Streit - der inzwischen schon über drei Jahrzehnte vor den Vereinten Nationen anhängig ist - so zu lösen, daß nunmehr an die Abgabe einer offiziel len Streitbeilegungserklärung gedacht werden kann".

Con queste parole Alois Mock apre, il 12 giugno del 1992, il suo intervento davanti al Bundesrat, il secondo ramo del Parlamento austriaco, in apertura della discussione sulla chiusura della vertenza internazionale con l'Italia per la questione altoatesina. Il richiamo al clima di guerra e di violenza che si respira in quei giorni in Europa è tutt'altro che casuale o puramente retorico. Quando Mock prende la parola nella vecchia aula parlamentare dove esistono ancora i seggi su cui hanno preso posto, in anni lontani, Cesare Battisti e Alcide de Gasperi, si sta consumando da alcune settimane una delle vicende più violente e tragiche della lunga guerra seguita alla dissoluzione della vecchia Jugoslavia. All'inizio del mese di aprile del 1992 le milizie serbo bosniache hanno finito di circondare, con le loro postazioni di artiglieria, la città di Sarajevo. Il 27 maggio, mentre a Merano la sala del Kursaal viene addobbata per accogliere i delegati al congresso straordinario della Suedtiroler Volkspartei che tre giorni più tardi dovrà sancire il definitivo assenso alla chiusura della vertenza, i proiettili di artiglieria sparati dai serbi colpiscono i cittadini di Sarajevo in coda per acquistare un pezzo di pane. 16 persone sono uccise sul colpo ed altre centinaia ferite. I cecchini prendono di mira anche i soccorritori. Altri morti, altri feriti. E solo un giorno più sanguinoso degli altri sul calendario di un assedio che durerà ancora mesi e mesi e che farà una quantità impressionante di vittime.

È a questo che Mock si riferisce, in quel giugno del 1992, quando esalta, per contrasto, la pacifica e civile soluzione che è stata trovata, tra Austria e Italia, per dirimere una controversia lunga, complessa, contrassegnata nei decenni precedenti da momenti di tensione acuta e di violenza. È una soluzione che andata maturando di pari passo, e il Ministro lo sa benissimo, con l'affermarsi di un concetto di Europa che va oltre gli Stati nazionali, che rende i confini, anche quelli giudicati ingiusti da taluni come quello del Brennero, meno rigidi e divisivi.

Su una carta geografica, e Mock quando parla lo sa benissimo, la distanza che separa Vienna da Sarajevo è di appena un centinaio di chiilometri più lunga di quella che separa invece la capitale austriaca da Bolzano. Quello che accade nella tormentata terra balcanica avviene dunque sulla porta di casa di un'Europa che assiste impotente, a volte disperata, a volte ancora complice. È un paragone, quello tra la vicenda della ex Jugoslavia e quella dell'Alto Adige, che andrebbe tenuto sempre in mente è ripassato periodicamente per trarne opportuni e utili insegnamenti. Dal 1945 in poi il regime comunista di Tito ha prodotto uno sforzo titanico per comporre, compensare e annullare le antiche rivalità etniche, le differenze di cultura e di condizione sociale, gli odi antichi tra le varie popolazioni che sono venute a comporre la Jugoslavia moderna. Sono stati escogitati meccanismi di partecipazione e controllo incrociati che, per alcuni versi, ricordano persino quelli adottati per garantire, nella seconda autonomia, la minoranza sudtirolese. Serbi, croati, bosniaci, montenegrini e sloveni hanno vissuto fianco a fianco, per decenni, le vicende e le traversie di uno Stato unitario. È bastato però che il carisma di Tito si spegnesse con la sua morte e che venisse meno la coercizione politica rappresentata dalla divisione dell'Europa in due blocchi contrapposti, perché gli spettri dell'odio etnico e religioso uscissero dalle tombe di eccidi lontani in cui erano stati confinati e tornassero a seminare violenza, miseria, morte.

Non sarebbe male che su tutto questo riflettessero, proprio partendo dagli avvenimenti di 25 anni or sono, anche coloro che oggi, in Alto Adige, si baloccano con le parole d'ordine e i pericolosi giocattoli dell'identitarismo etnico, della contrapposizione, dello scontro perenne. Forse pensano di poter giocare la loro partita restando al sicuro, dietro alle reti di protezione costruite un quarto di secolo fa, con pazienza e immensa fatica. La vicenda jugoslava, con regioni che ancor oggi patiscono gravemente le conseguenze di quegli orrori, serve a ricordarci proprio che, quando si tratta di contrasti etnici, nulla può essere dato per scontato, nulla è mai acquisito per sempre.

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Toni Ladurner So., 25.06.2017 - 11:52

Danke für diesen Beitrag.
Die tragischen Ereignisse auf dem Balkan sollten auch die Kripps und Niederhofers, die einen "klaren Schnitt" propagieren, daran erinnern, dass derlei Operationen fast immer mit vielen Opfern und großen Verwerfungen verbunden sind und in der Regel neues Unrecht erzeugen.

So., 25.06.2017 - 11:52 Permalink
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Martin B. So., 25.06.2017 - 14:27

Ein großer Unterschied: am Balkan gibt es mehrere stark kontrastierende Religionen, die nicht unwesentlich an der Hochschaukelung der Auseinandersetzungen bis hin zu den Kriegsverbrechen beteiligt waren, bzw. diese "moralisch" gerechtfertigt haben. Mir bekannte Flüchtlinge z.B. in Österreich sind selbst vor der "eigenen" Religion angewidert geflüchtet und leben mehr oder weniger atheistisch.
Ähnliches in Südtirol durch die katholische Kirche ist mir nicht bekannt. Eine drohende Balkanisierung scheint mir also weit hergeholt und wäre nur Thema wenn rechtsradikale Nationalisten bei beiden Sprachgruppen eine Mehrheit in der Bevölkerung hätten.

So., 25.06.2017 - 14:27 Permalink