Di recente ho avuto bisogno di spiegare il cambiamento nella percezione di una parola, un cambiamento che – io credo – sia avvenuto con grande nettezza. Un cambiamento o una mutazione che, quindi, ci potrebbe servire a capire meglio il tempo in cui viviamo. La parola è “sfruttamento” e a tal proposito mi è così capitato di raccontare una piccola storia che mi riguarda. Sono nato in un quartiere popolare di una città toscana dotata di una diffusa sensibilità di “sinistra”. Bastava scendere per strada, muoversi tra la gente, ma anche solo aprire le finestre della mente per immergersi in un'atmosfera ideale, ancor prima che ideologica, di un certo tipo.
L'hanno chiamato riflusso e, in effetti, bisognerebbe chiamarlo reflusso, perché si tratta della risalita di materiale acido non digerito, non smaltito dalla storia nel suo progredire
La parola “sfruttamento” era una delle più ricorrenti ed aveva un significato ben preciso: gli sfruttati erano quelli che stavano in basso, quelli che guadagnavano meno, dunque spesso erano donne, oppure neppure guadagnavano, perché costretti e costrette a lavorare sopravvivendo a stento; gli sfruttatori erano evidentemente quelli che stavano sopra ai primi, i padroni che li dominavano per condizione sociale ed economica. Anche il senso di ribellione nei confronti di tale situazione si respirava nell'aria, e ovviamente la bilancia delle preferenze politiche pendeva poi tutta dalla parte di quei partiti che avevano nella “lotta allo sfruttamento” la loro parola d'ordine. Poi, diciamo alla fine degli anni Settanta, è successo qualcosa, il cambiamento a cui accennavo. L'hanno chiamato riflusso e, in effetti, bisognerebbe chiamarlo reflusso, perché si tratta della risalita di materiale acido non digerito, non smaltito dalla storia nel suo progredire.
Alla luce del riflusso (o reflusso) il termine “sfruttamento” ha perso il suo sapore, anzi ha cominciato a cambiare sapore
Alla luce del riflusso (o reflusso) il termine “sfruttamento” ha perso il suo sapore, anzi ha cominciato a cambiare sapore. Non erano più gli svantaggiati, i poveri, le donne a costituire il soggetto passivo dello sfruttamento. Gli sfruttatori non erano più neppure presi per quelli che approfittavano in modo truffaldino di una rete sociale in via di veloce smantellamento (ricordate i falsi ciechi che ci vedevano benissimo, gli zoppi iscritti alle gare di corsa e i monchi che vivevano facendo i prestigiatori?). In quel caso si parlava di “furbi”, miscelando sdegno e ammirazione in parti ineguali (era più l'ammirazione, cioè). No, i veri sfruttatori, da allora in poi, sarebbero stati identificati proprio con i poveracci di una volta, con gli ultimi della terra e con chiunque, incontrato agli angoli di una strada, aveva viaggiato fino ad arrivare alle porte del nostro mondo più ricco e adesso protendeva la mano a chiedere qualcosa. Sfruttatori di carità, sfruttatori di pietà, sfruttatori della nostra pazienza, tutta feccia da respingere, da ostacolare o, perché no, da far sfruttare ai caporali nei campi e nei cantieri, tra privazioni e violenze di ogni genere.
Una notazione al margine: tra il primo concetto di sfruttamento, quello di una volta, e questo nuovo tipo, capovolto e pervertito, la differenza intanto si è allargata, è diventata un baratro, e nel baratro sembra finita, anzi scomparsa, ogni vera voglia di riscatto inerente temi quali la tutela del lavoro, l'uguaglianza di genere e, insomma, la difesa dei più elementari diritti umani. E Dio solo sa quanto ci sarebbe bisogno di ritrovarne qualche brandello, di quella voglia di riscatto.