Immaginiamo per un attimo che, il 23 giugno del 1939, un solerte cronista berlinese abbia ricevuto dal suo caporedattore l'incarico di recarsi, fotografo al seguito, in un palazzo a tutti noto nella capitale del Reich, situato al numero 9 della Prinzalbrechtstraße e che ospitava, allora, la sede principale del Reichsführer-SS Heinrich Himmler. Al nostro cronista è stato detto di seguire, in quel palazzo, lo svolgimento di una importante riunione tra due delegazioni ad alto livello, una germanica e l'altra italiana. Scopo della riunione quello di cancellare sostanzialmente la presenza tedesca in Alto Adige.
Prima di recarsi sul posto il nostro solerte cronista avrà cercato sicuramente di procurarsi il maggior numero di informazioni sull'argomento in questione. Avrà scoperto, se già non lo sapeva prima, che, con la fine del primo conflitto mondiale, un consistente numero di abitanti di madrelingua tedesca del vecchio Tirolo sono divenuti cittadini di un'Italia che è riuscita, con la vittoria, a portare i propri confini sino allo spartiacque alpino, piantando il tricolore al passo del Brennero. Avrà saputo che i sudtirolesi, contro questa sorte amara che li ha separati dai conterranei del Tirolo del Nord, si sono battuti in ogni modo e non hanno mai cessato di protestare, specie dopo che, con l'avvento al potere del fascismo nel 1922, è iniziata una virulenta campagna di italianizzazione della loro terra. Il nostro cronista, che è persona attenta, saprà anche che a sostenere i "fratelli separati" nella loro battaglia si sono distinte soprattutto le organizzazioni della destra tedesca e austriaca di stampo più o meno pangermanista, ma che questo impegno ha iniziato a venir meno, man mano che cresceva, in quel parterre politico, l'importanza del movimento nazista guidato da Adolf Hitler. Quest'ultimo, sin dagli esordi della sua carriera politica, ha sempre sostenuto che interesse primario di una Germania che volesse riscattarsi dall'umiliazione del trattato di Versailles, era quello di avere un rapporto di alleanza fraterna con l'Italia guidata da Benito Mussolini e che sull'altare di questa convenienza doveva essere sacrificata ogni forma di rivendicazione riguardante i sudtirolesi. Una scelta dalla quale Hitler non si è mai discostato di un millimetro, affrontando impassibile le accuse degli altri movimenti di destra, le accorate recriminazioni dei sudtirolesi stessi, la sorda opposizione sempre mantenuta dagli stessi appartenenti al suo partito, specie se provenienti da zone come il Tirolo e la Baviera. Una politica ribadita in particolare nel 1938, quando, proprio grazie alla mancata opposizione dell'Italia, il Fhrer riesce a portare a termine il sogno di unificare l'Austria alla sua Germania. Saprà sicuramente, il nostro bravo cronista, che con l'Anschluss, tuttavia, la bandiera con la svastica è andata a sventolare anch'essa, assieme al tricolore, al passo del Brennero, alimentando, tra i sudtirolesi oppressi, la speranza di poter contare finalmente su un potente alleato per liberarsi dall'oppressore italo-fascista. Questi segnali di tensione crescente, ha annotato sul suo taccuino il bravo giornalista, si sono intrecciati fatalmente, tra la fine del 1938 l'inizio del 1939, con le trattative che Italia e Germania stanno portando avanti per la stipula di un trattato di alleanza che li leghi strettamente l'uno all'altro in pace e in guerra. La questione dell'Alto Adige è divenuta una sorta di banco di prova sul quale Mussolini e il suo Ministro degli esteri e genero Galeazzo Ciano vogliono testare l'effettiva volontà dei tedeschi di considerare il ruolo e gli interessi dell'Italia nella futura alleanza. I rapporti allarmati che il Prefetto di Bolzano Giuseppe Mastromattei manda a Roma sull'attività dei gruppi dell'irredentismo sudtirolese, spesso celati sotto il simbolo della croce uncinata, sono poi altrettante frecce all'arco di coloro che in Italia, e non sono pochi, considerano un grave errore l'alleanza con il potente vicino germanico.
Avviene così che nel lungo preambolo del trattato stesso l'Italia pretenda di inserire una frase relativa alla definitività dei confini tra i due paesi: " con le frontiere comuni, fissate per sempre - si dice infatti -, è stata creata tra l'Italia e la Germania la base sicura per un reciproco aiuto ed appoggio". E' quasi inevitabile quindi che, quando le firme dei due ministri degli esteri di Italia e Germania, Galeazzo Ciano e Joachim von Ribbentropp, sono ancora fresche in calce a quel documento passato alla storia come "Patto d'acciaio" e siglato il 22 maggio 1939, Hitler decida di affrontare, proprio nella riunione fissata per le 16 del 23 giugno, l'intera questione degli altoatesini.
Il bravo cronista si è scrupolosamente annotato tutte le cose di cui sopra, ma, a meno che non abbia delle fonti veramente eccezionali, è ben difficile che ne sappia altre, di non minore importanza, mentre ignora alcuni fatti semplicemente perché devono ancora verificarsi. Anche se, come tutti i germanici, ha notato un crescendo polemico della propaganda nazista nei confronti della Polonia, messa sul banco degli imputati da Hitler perché non accetta la revisione delle frontiere nella zona di Danzica, il nostro giornalista sarebbe oltremodo stupito,e probabilmente assai preoccupato, se sapesse che, il 3 aprile, Hitler ha emesso una direttiva segreta denominata Fall Weiß("caso bianco"), che ordina allo Stato maggiore generale tedesco di preparare un piano per l'invasione della Polonia stessa. Nei progetti di guerra dello Stato nazista la firma del Patto d'Acciaio soddisfa una delle condizioni essenziali previste per poter scatenare la guerra. L'altro passaggio essenziale è quello di assicurarsi la neutralità dell'altra grande potenza che si affaccia sul confine orientale della Polonia e cioè l'Unione Sovietica del compagno Stalin. Sarebbe ancor più sorpreso, il nostro bravo giornalista, se sapesse dei contatti avviati ormai da tempo per un trattato di amicizia che verrà siglato esattamente due mesi dopo, il 23 agosto, sette giorni prima dell'attacco nazista a Varsavia.
È questo il quadro politico nel quale va a incastrarsi la riunione di venerdì 23 giugno 1939. Il cronista, diligente, annota l'arrivo delle delegazioni, in un rincorrersi di uniformi e di decorazioni, con una selva di braccia alzate nel saluto romano o in quello nazista. Poi tutti prendono posto ai due lati del tavolo e si comincia. Sul taccuino del nostro inviato finiscono subito i nomi dei presenti, di quelli di maggior spicco perlomeno, e si comincia, per cortesia di ospitalità, con la delegazione italiana. Ecco l'elenco: Bernardo Attolico, Ambasciatore d'Italia a Berlino, è sostanzialmente il capodelegazione. Massimo Magistrati, Consigliere d'ambasciata a Berlino; nei suoi libri "L'Italia a Berlino" e Il Prologo del dramma" ci ha lasciato un'interessante testimonianza sui rapporti italo-tedeschi in quel periodo. Blasco Lanza d’Ajeta , prima segretario particolare, poi capo di gabinetto di Galeazzo Ciano; è l'uomo mandato a Berlino direttamente dal genero del Duce che poco si fida dei diplomatici di carriera. Guido Romano, Console Generale d'Italia a Innsbruck sin dal 1938 ed infine Giuseppe Mastromattei, Prefetto di Bolzano; è il fedele esecutore dei progetti di italianizzazione dell'Alto Adige varati da Mussolini. E' anche l'unico di tutta la delegazione che conosca nel dettaglio la situazione altoatesina.
A fare gli onori di casa e a guidare la delegazione tedesca c'è , come detto, una delle figure chiave del regime hitleriano. Heinrich Himmler controlla, attraverso le SS e la Gestapo, l'intero apparato repressivo di polizia. Gli siede accanto una delle figure più cupe del regime: Reinhard Heydrich posto da Himmler a capo del Reichssicherheitshauptamt o RSHA ( Direzione generale per la Sicurezza del Reich). Sarà tra l'altro il diretto responsabile della cosiddetta "Soluzione finale" per lo sterminio degli ebrei; finirà ammazzato a Praga in un agguato. Il ministero degli esteri è rappresentato da Ernst Heinrich von Weizsäcker, Segretario di Stato, finito sotto processo a Norimberga, nel dopoguerra. All'entourage di Himmler appartiene invece un altro personaggio di notevole interesse, l'SS Obergruppenführer Karl Wolff. E' l'uomo che tiene i contatti tra il capo delle SS e Hitler, che partecipa alle operazioni di soppressione degli ebrei in Polonia e Ucraina. Nel settembre 1943 arriva in Italia come capo delle SS che controllano la parte del paese occupata dai nazisti. Negli ultimi mesi di guerra sarà lui a tessere la tela di un accordo con i servizi americani per la resa delle truppe germaniche in Italia (Operazione Sunrise). La fine del conflitto lo coglie a Bolzano. Nel dopoguerra ritorna più volte in Alto Adige. Ancora un cenno, in chiusura, ad un altro componente della folta delegazione germanica: il console del Reich a Milano, Otto Bene, che avrà un ruolo di spicco, sino al 1941,nella gestione delle opzioni da parte germanica. Nel dopoguerra viene incarcerato in Olanda con l'accusa di aver partecipato alle persecuzioni antiebraiche. Dopo il rilascio va a lavorare per una nota azienda produttrice di alcoolici.
Se nostro osservatore è dotato di uno spirito di osservazione abbastanza acuto, annoterà sicuramente sul suo taccuino un'osservazione riguardante la diversa composizione delle due delegazioni. Non tanto dal punto di vista numerico, in quanto è naturale che i padroni di casa, i germanici, abbiano una rappresentanza più folta, quanto sul piano qualitativo. C'è innanzitutto un aspetto da sottolineare. La delegazione del Reich comprende personaggi di assoluta caratura ed è guidata da uno degli esponenti di spicco del regime. Quella italiana, al confronto, è ben poca cosa. Un ambasciatore, due o tre diplomatici di secondo livello e un prefetto. Un errore di sottovalutazione che Roma pagherà assai caro nei mesi successivi. I germanici poi, proprio con la composizione della loro delegazione, mostrano di considerare da subito le opzioni come un problema di sicurezza interna. Per gli italiani invece è una questione da lasciare in mano ai diplomatici. Anche su questo dovranno ricredersi.
Continuiamo a questo punto ad immaginare che il nostro giornalista possa persino assistere ai lavori. Ascolterà Himmler mentre definisce i contorni del problema. I residenti di lingua tedesca e ladina in Alto Adige vengono divisi in tre gruppi. Il primo è composto da coloro che già sono cittadini del Reich. Sono alcune migliaia e hanno perlopiù acquisito la cittadinanza germanica al momento dell'Anschluss nel 1938. Sono quelli di cui l'Italia ha più fretta di sbarazzarsi e si decide per un rimpatrio quasi immediato. Poi ci sono i cittadini italiani, divisi a loro volta in due categorie: i proprietari di beni immobili e gli altri. Per questi due gruppi sarà utilizzato un meccanismo già esistente nel diritto internazionale e già collaudato in altre occasioni: quello del diritto di opzione. In pratica ai sudtirolesi di madrelingua tedesca e ladina verrà imposto di scegliere entro un dato termine se diventare o meno cittadini del Reich. Quelli che non hanno case o terreni dovranno solo perfezionare l'opzione trasferendosi in Germania. Gli altri potranno vendere i loro beni, ricevendo poi il controvalore una volta abbandonato l'Alto Adige. Delineati in questo modo i termini generali della questione ci si confronta per un po' sui numeri. Dopo due ore, alle 18, Himmler dichiara conclusa la riunione. In centoventi minuti il destino dei sudtirolesi è stato fissato. Gli intervenuti si salutano con il braccio alzato e se ne vanno. Con loro, se mai fosse esistito, se ne sarebbe andato anche il nostro cronista che ovviamente è una figura di pura immaginazione. L'impegno, fatti, è quello di far restare tutto coperto dal massimo segreto. A Bolzano nessuno deve sapere nulla. Così accade.
Sulla Dolomiten del 24 giugno, il giorno dopo la riunione, c'è, in prima pagina, una notizia da Berlino ma riguarda un discorso tenuto dal Ministro della propaganda Göbbels agli impiegati comunali. Il quotidiano fascista "La Provincia di Bolzano", sempre sabato 24 giugno, riferisce ai suoi lettori di una visita di Mussolini nella natia Romagna, mentre, nelle pagine di cronaca locale, la notizia del giorno è quella relativa all'inizio dei lavori per il tunnel stradale sotto il Virgolo. Della riunione di Berlino nemmeno una parola. La consegna del silenzio viene rigorosamente osservata, anche se, da parte italiana, qualcuno avrebbe preferito poter piazzare un colpo propagandistico, anche per smentire le voci, ricorrenti in Alto Adige, sulla possibile cessione della provincia al Reich.
Il silenzio stampa viene violato solo tre settimane dopo la riunione di Berlino. Qualcuno, una "manina" si direbbe col gergo d'oggi, fa arrivare qualche indiscrezione ai diplomatici francesi che la girano alla stampa. E' il quotidiano francese " Le Temps" che, a metà luglio, descrive, per sommi capi, il progetto delle opzioni. A questo punto anche Berlino e Roma lasciano trapelare le prime imbarazzate ammissioni. Poi verranno le conferme ufficiali e , a tempo debito, la pubblicazione integrale degli accordi. A quell'epoca però il nostro giornalista avrà ben altro da scrivere. Settanta giorni dopo la riunione di Berlino la Germania attacca la Polonia e inizia la seconda guerra mondiale.
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Sin qui la cronaca di quelle due ore che, nelle intenzioni di chi a quella riunione partecipò, avrebbero dovuto cambiare la faccia dell'Alto Adige. Se il nefasto progetto non fu portato a compimento fu solo perché gli avvenimenti successivi decisero altrimenti. Le opzioni del 1939 portarono comunque un carico infinito di lutti, di sopraffazione, di violenza e di divisione, lasciando ferite profonde e mai del tutto rimarginate nel mondo sudtirolese. L'aver raccontato quelle ore inventando l'esistenza di un cronista che non poteva esistere, anche perché se mai fosse esistito sarebbe finito rapidamente a vedere dall'interno i reticolati di un campo di concentramento, non è puro espediente narrativo. È un fantasma che ci vuole ricordare come tutto, in quella riunione, nelle trattative che l'avevano preceduta in quelle che l'avrebbero seguita fu elaborato senza nemmeno porsi il problema di ascoltare e di infromare coloro che di quelle decisioni sarebbero stati oggetto. Degli esseri umani considerati come cose da spostare qua e là, da trasferire come pacchi postali.
È un pensiero che ci conduce a un'analisi un po' più approfondita di quegli avvenimenti di ottant'anni or sono. Nel ripensare il fenomeno delle opzioni, e c'è da sperare che in occasione di questo anniversario le riflessioni siano ampie ed estese tutta la comunità altoatesina, specie ai giovani, viene spontaneo imputare la totale responsabilità di quel truce disegno alle due dittature sorelle ed alleate che lo concepirono. Lasciano il tempo che trovano i battibecchi tra i polemisti dell'una e dall'altra parte che cercano di attribuire all'avversario di sempre la primogenitura dell'idea di sradicare un popolo dalla sua terra avita e di trasferirlo altrove. È indubbio che in calce a questo folle disegno ci sono i nomi di Adolf Hitler e Benito Mussolini, ma sarebbe un errore non considerare il fatto che esso rappresenta anche il distillato finale di un'ideologia, quella nazionalista, che precede di gran lunga l'avvento dei due regimi dittatoriali che occupano la storia d'Italia e Germania nella prima metà del 900. Le opzioni altro non sono che un colossale progetto di pulizia etnica. Per il nazionalismo italiano, che è andato ad integrarsi perfettamente nel regime fascista, si tratta di perseguire in ogni modo, anche attraverso l'espulsione dei sudtirolesi che non vogliono rinunciare alla loro lingua e alla loro cultura, il progetto totale italianizzazione delle terre conquistate con la vittoria del primo conflitto mondiale. A Bolzano, come sul confine orientale, non c'è posto per chi non si piega. Eguale e contraria al tempo stesso la motivazione dei nazisti: non si può tollerare che una popolazione tedesca continui a vivere sotto il dominio di chi tedesco non è. Se la strategia hitleriana non permette di fare in Alto Adige quello che è stato fatto nei Sudeti, meglio è che sia il popolo oppresso a lasciare la sua terra.
L'importante, e qui siamo al cuore profondo del pensiero nazionalista di tutte le epoche, le lingue, le terre, è che non vi sia mescolanza, non vi sia convivenza di popoli diversi nello stesso luogo, non vi siano zone grigie sulla carta geografica. O bianco, o nero. È in omaggio a questa crudele religione che i sudtirolesi non possono aspirare a vivere nella loro terra, mantenendo la loro lingua, le loro tradizioni e la loro cultura.
È un'ideologia terribile che arriva da lontano. Le sue radici remote affondano in una filosofia secondo la quale l'uomo può essere felice solo se è circondato unicamente da persone che condividono con lui la lingua, la cultura e le tradizioni. Tra coloro che l'hanno formulata per primi c'è, sul finire del settecento, prima ancora che scoppi d'incendio della Rivoluzione Francese, un filosofo tedesco, allievo e poi grande contestatore di Immanuel Kant: Johann Gottfried Herder. L'idea, volgarizzata e ridotta all'osso, è semplice. Secondo Herder ogni popolo coltiva il pensiero di essere diverso e superiore rispetto agli altri popoli che lo circondano. Un pensiero forse errato, ma secondo il filosofo assolutamente positivo. "..lo si chiami pure pregiudizio, volgarità, gretto nazionalismo - scrive - , ma il pregiudizio è utile, rende felici, spinge i popoli verso il loro centro, li fa più saldi, più fiorenti alla loro maniera, più fervidi e quindi più felici nelle loro inclinazioni e nei loro obbiettivi [...] la nazione più ignorante, più ricca di pregiudizi, è spesso la prima: l'epoca delle immigrazioni di desideri stranieri, dei viaggi di speranze all'estero, è già una malattia, è una pienezza d'aria, una malsana gonfiezza, un presentimento di morte".*
E' questo il nocciolo duro di un'ideologia destinata a dilagare nei decenni successivi e ad arricchirsi di ulteriori postulati, come quello del cosiddetto " darwinismo sociale" in base al quale i popoli più puri, sani e forti sono destinati a prevalere su quelli più deboli e corrotti dalla mescolanza. E' un lungo percorso quello che porta dalle teorie filosofiche alla pratica politica, dalle elucubrazioni sulla felicità umana allo sterminio sistematico delle minoranze, sterminio culturale o anche sterminio fisico. La storia delle opzioni sudtirolesi del 1939 non è che una delle tappe di questa vicenda sanguinosa, che prosegue ben oltre la fine del nazismo e del fascismo che si mostra, ammantandosi di patriottismo, in tutta la sua repellente realtà sino ai giorni nostri.
*Da "Auch eine Philosophie der Geschichte (Ancora una filosofia della storia) - 1774