Ci fu un tempo, quasi mezzo secolo fa, nel quale le sale cinematografiche di Bolzano ospitavano non di rado le prime nazionali di film più o meno famosi. Non avveniva perché il capoluogo altoatesino fosse divenuto, all’improvviso, una novella Venezia o una nuova Cannes, ma semplicemente perché in quel modo produttori e registi speravano di aggirare le forche caudine della censura, la mannaia su cui stava scritto “comune senso del pudore”.
La storia è interessante e vale la pena di essere raccontata proprio oggi visto che a trarla dai polverosi archivi è arrivata una mostra permanente on-line realizzata grazie all’impegno del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma con il sostegno del MIBACT. Si intitola “Cinecensura” e raccoglie una sterminata mole di immagini e di documenti che illustrano come la morsa delle censura si sia stretta, nelle varie epoche, sull’arte cinematografica.
Avvenne, ovviamente, durante il periodo fascista quando la censura preventiva era applicata non solo alle pellicole cinematografiche ma a qualunque esercizio del pensiero. Il sistema, tuttavia, rimase praticamente immutato anche quando si passò dalla dittatura alla democrazia ed anzi crebbe, su pressione della Chiesa, la tendenza a sradicare dalle pellicole qualunque passaggio che potessi anche solo suonare sgradito ai censori cattolici.
Non c’è devozione
Un piccolo esempio tratto proprio dal materiale reso oggi è accessibile da Cinecensura. Nel 1952 il regista Vittorio De Sica presenta uno dei suoi film più riusciti, una pellicola che ancora oggi è considerata uno dei capolavori del neorealismo italiano. “Umberto D” narra la storia terribile e angosciante di un povero pensionato ridotto in miseria, la cui unica consolazione, in un mondo che non gli offre in alcun modo amore e comprensione, è costituita da un piccolo cagnolino. Secondo l’uso di quel tipo di cinema, a recitare anche i ruoli principali erano chiamate persone comuni, senza nessuna esperienza cinematografica. Per il ruolo del protagonista De Sica scelse un illustre scienziato di linguistica, Carlo Battisti, nativo della Val di Non, per decenni ordinario all’Università di Firenze, nonché collaboratore, fervido seguace e infine continuatore dell’opera politica di Ettore Tolomei. Il film, come voleva allora la legge, dovette passare sotto la lente di ingrandimento delle apposite commissioni, dette “di revisione”. Nulla, in tutto il film, poteva far pensare ad un qualcosa di poco raccomandabile, eppure i censori qualcosa trovarono lo stesso. Imposero al regista di tagliare una scena nella quale il protagonista assisteva, nel suo letto in una grande camerata di ospedale, alla recita del Rosario. Secondo la commissione uno dei malati non si applicava al rito religioso con sufficiente devozione. La scena fu tagliata.
Rifugiarsi a Bolzano
Questi erano i tempi e queste erano le usanze. Quando si giunge alla metà degli anni 70 e quindi all’epoca in cui si svolge la storia che vogliamo raccontare era entrata in vigore, dal 1962, una nuova legge ma il sistema, in sostanza, era rimasto lo stesso. I film dovevano passare al vaglio delle commissioni che stabilivano anche le eventuali limitazioni alla visione con il divieto per i minori di quattordici o diciott’anni e chiedevano eventualmente, per emettere il sospirato nulla osta, il taglio di questa o quella sequenza considerate intollerabili.
Una volta ottenuto il bollino della commissione di censura, da applicare su ogni singola “pizza” da inviare alle varie sale cinematografiche il film poteva cominciare a circolare, ma i guai potenziali erano tutt’altro che terminati. Sulle pellicole più discusse incombeva il rischio del sequestro che poteva essere attuato da una qualsiasi autorità giudiziaria che, di propria iniziativa o su segnalazione delle organizzazioni di benpensanti costituitesi a difesa della pubblica morale, giudicava la pellicola lesiva della pubblica morale. Qui iniziava un processo giudiziario che poteva concludersi anche con il sequestro definitivo dell’opera e con la condanna del produttore, del regista e dello sceneggiatore. C’era però una norma sulla competenza che l’assegnava, in questi casi, alla magistratura del luogo dove il film era stato proiettato per la prima volta sul territorio nazionale. È qui che entra in ballo Bolzano. Si era diffusa infatti, negli ambienti dei produttori cinematografici, l’idea che i giudici di Bolzano fossero di manica assai più larga e di vedute più ampie rispetto a quelle dei colleghi di altre località del paese.
Il sistema funzionava più o meno così: le case produttrici, una volta ottenuto il visto della commissione di censura, mandavano una copia a Bolzano perché venisse proiettata anche per una sola volta, per un solo giorno. Poi scattava il consueto meccanismo di distribuzione nelle sale delle grandi città e successivamente dei circuiti più periferici di cui il capoluogo altoatesino faceva parte. Se e quando scattava il sequestro messo in atto da un qualunque magistrato italiano questi doveva trasferire il fascicolo per competenza alla procura bolzanina. Il meccanismo funzionò in quegli anni diverse volte. Noi abbiamo scelto, sempre con la complicità del materiale pubblicato da Cinecensura di raccontare la vicenda di quello che è forse il film più famoso transitato in prima assoluta, per un giorno, sugli schermi bolzanini. Il film è “Novecento” di Bernardo Bertolucci.
Sequestrate “Novecento”
L’anno è il 1976, anno terribile e fatale per il regista parmense. Sono infatti i mesi nei quali arriva a conclusione il processo penale, sempre per violazione del comune senso del pudore, intentato dalla magistratura italiana nei confronti di una sua pellicola di qualche anno prima, “Ultimo tango a Parigi”. Un clamoroso successo di pubblico ma anche una tempesta di polemiche per alcune scene di sesso particolarmente forti. Il processo si conclude in quell’anno, come si diceva, con la condanna definitiva del film alla totale distruzione. Vengono salvate clandestinamente solo alcune copie. Bertolucci è dunque nel mirino dei censori ed ha scontato sulla propria pelle la durezza di un sistema che non ammette determinate forme di espressione. In quell’anno esce nelle sale quello che è considerato un altro dei suoi capolavori. “Novecento” racconta con una durata assolutamente superiore a quella di tutte le altre pellicole le vicende degli uomini e della politica nella campagna emiliana durante gli sconvolgimenti della prima metà del secolo. Non ci sono, nel film, le scene crude che avevano mobilitato sul film precedente i censori, ma qualche passaggio “forte” sia per quanto riguarda il sesso che per la violenza c’è e i sequestratori sono dunque in agguato.
Nel maggio del 1976 il produttore Alberto Grimaldi presenta la pellicola alla Commissione di revisione che nel giro di qualche giorno emette il suo verdetto. Riconosce che la pellicola è “di grande impegno artistico” ma che alcune scene di sesso e di violenza in essa contenute impongono di vietarne la visione ai minori di anni 14. Il bollino di libera circolazione nelle sale viene rilasciato, sia pur con questa limitazione, e il film può essere proiettato. Grimaldi però, ammaestrato dall’esperienza devastante de “L’ultimo tango” si cautela facendo eseguire la prima proiezione nazionale a Bolzano.
La mossa si rivela azzeccata in quanto, nel settembre successivo, un magistrato di Salerno, il giudice Domenico Santacroce dispone il sequestro del film su tutto il territorio nazionale ipotizzando la violazione dell’articolo 528 del Codice Penale, norma che punisce coloro che producono spettacoli osceni.
Il sequestro scatta e la proiezione del film viene interrotta dai carabinieri. Scatta però anche la norma sulla competenza di cui abbiamo detto sopra e l’intero fascicolo viene mandato a Bolzano. Nel giro di pochi giorni la magistratura bolzanina emette il suo verdetto. Il 29 settembre il sostituto procuratore Vincenzo Anania, magistrato assai conosciuto all’epoca in Alto Adige, ordina il dissequestro del film, precisando, nelle poche righe del suo provvedimento, di aver visionato la pellicola e di non aver rilevato in essa alcun carattere di oscenità. La procedura prevedeva infatti che ogni volta i magistrati visionassero il film “incriminato”. Era una seconda proiezione, che avveniva a volte nello stesso cinema dove era stata effettuata quella che aveva dato luogo alla competenza dei giudici bolzanini, ma questa volta a porte rigorosamente chiuse e con i posti in platea riservati al giudice che doveva decidere e al massimo a qualche altro addetto ai lavori.
Nel giro di qualche giorno, sulla questione si pronuncia anche il titolare dell’ufficio istruzione del tribunale di Bolzano, Dottor Franco Paparella che accoglie in pieno la richiesta del collega Anania di archiviare l’azione penale nei confronti del produttore e del regista del film. Alla fine la pellicola può continuare ad essere proiettata e le varie copie sequestrate vengono restituite alla casa di produzione. “Novecento” resterà uno dei film più importanti della cinematografia italiana del secolo scorso e verrà trasmesso, in tempi più recenti, anche sugli schermi televisivi senza più suscitare nessun tipo di polemica.
Dopo qualche anno viene a cadere anche la prassi della prima proiezione bolzanina dei film e quella stagione cade nel dimenticatoio della cronaca. La mostra sulla censura ha, tra le altre cose, anche il merito di ricordarci un tempo passato, ma anche l’attualità di un tema, quello del controllo sulle opere dell’ingegno e sulla libera espressione delle idee, che continua anche oggi ad essere tra i più scottanti, sia pure in un mondo completamente diverso da quello in cui giudici andavano, al pomeriggio, nelle sale di un cinema, per giudicare dell’oscenità di un film.
*Anche il titolo di questo contributo ha una sua piccola storia. Il gioco di parole, che pure non si attaglia del tutto all’argomento, visto che molti dei film passati per le sale bolzanina erano tutt’altro che pornografici, fu partorito dalla fantasia di un collega che si occupava all’epoca di cronaca giudiziaria. Dovette però rinunciare a utilizzarlo per due buoni motivi. Un giudice, lo stesso che emise il primo provvedimento sul film di Bertolucci, lo minacciò di arresto se l’avesse utilizzato. Era una frase scherzosa ma conoscendo quel giudice era meglio non fidarsi troppo. E il collega scriveva poi per un giornale rigidamente cattolico e c’erano buone possibilità che il titolo non piacesse al direttore. Così rimase un’incompiuta e mi è parso giusto rispolverarlo oggi assieme al resto della storia.