Gesellschaft | pregiudizi

“Xie xie” e la terra di mezzo

E se l’unico parrucchiere accessibile in città fosse cinese? Storia di come un taglio di capelli fece crollare un pregiudizio ancestrale.
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C’è più di un modo per dire “grazie” in cinese e io l’ho scoperto per caso. Vi racconto una storia: io sono una che non va spesso a tagliarsi i capelli, ho scelto di lasciarli crescere spontaneamente, come i figli dei fiori, illudendomi così di rivendicare una sorta di libertà personale (senza sottovalutare il notevole risparmio economico). L’anno scorso, però, un impellente bisogno di sistemare la “capoccia” in occasione di una serata al Festival delle resistenze a Merano mi impone di affidarmi alle sapienti mani di un professionista del mestiere. E allora, girovagando per le vie, i viali e le stradine di Bolzano, mi metto in cerca del posto giusto, ma i prezzi mi sembrano ovunque esagerati.

Come se intuisse le mie titubanze sulla scelta del luogo più adatto, poi, ci si mette anche una signora attempata, forse novantenne, con peli bianchi sulle braccia e lingua affilata che mi dice a bassa voce: “in fin dei conti la bellezza costa. 50-60 euro sono spiccioli! Guai però ad avventurarsi dai cinesi. Ne siamo pieni... ti rovinano i capelli, costano poco, è vero, ma lavorano male!”. Non mi va di contraddire una persona anziana, la vedo vulnerabile e le voglio bene a priori. Non ho il tempo per starle a raccontare la storia millenaria della Cina e allora mi limito a dirle solo: “Il 2,2 % vuol dire essere ‘pieni’?”.

Poi c’è il fatto che – e mi scoccia confessarlo – a Durazzo sono abituata a pagare non più di 10 euro per un taglio. La mia amica Almira, che ha un piccolo negozio all’angolo di una minuta moschea che si affaccia sul mare, non mi fa pagare di più. La stradina dietro la porta del locale va verso l’anfiteatro che ha più di duemila anni, e, appoggiati al muro intorno alla moschea, si trovano perennemente un gruppo di nomadi spassosi, residenti del quartiere, che svuotano quotidianamente sacchi di vestiti usati, merce che vendono per pochi soldi. La strada a destra del negozio scorre per un centinaio di metri fino alla chiesa ortodossa. Alle spalle si trova alla stessa distanza la chiesa cattolica. È da quel negozio che sorseggiando il caffè offerto da Almira, con la testa avvolta in un tessuto morbido color acceso, osservo altre signore andare avanti e indietro per i vicoli, con i capelli che odorano di tinta, di olio d’oliva, e di chissà cos’altro. La porta si spalanca in continuazione e si vedono delle nonne incappucciate negli asciugamani che fanno domande, urlano e sbattono la porta per poi ritornare con un byrek caldo (piatto tipico albanese), una meraviglia orientale.

Insomma, da quando ho scoperto dieci anni fa questo posto a Durazzo, dove c’è sempre spazio per due chiacchiere, una risata, uno scambio di ricette e di sani pettegolezzi, non riesco a trovare un altro luogo dove mi sento così a casa. Lo so, sono un po’ esigente, perciò, alla fine, fatti due conti ho deciso di andare al negozio vicino a dove lavoro, in Via Milano. Ovviamente è cinese. Spingo la porta e, appena prima di entrare, mi riceve una donnina carina con capelli corti. Scambiate le cortesie di rito, leggermente in ansia le confesso: “Vede, signora, adesso sono le 8, il problema è che devo essere al lavoro per le 9. Vengo adesso, oppure…?”. La mia interlocutrice mi dice bonariamente a voce alta, con il tipico accento cinese: “Lei venile alle 8 e tlenta”, e io rispondo: “Ma poi temo di non riuscire ad aprire alle 9…”, ma lei insiste: “Tu venile, noi fale! No ploblema tu!”.

Devo fidarmi, non ho altra scelta. Alle 8 e 30 in punto mi affaccio al salone e, appena dentro, un paio di braccia mi accolgono e mi fanno sedere. Mi guardo allo specchio, c’è una donna dietro di me. Non quella di prima, un’altra. Le spiego più o meno il modello che ho in mente, ci capiamo, evviva. Mi lava i capelli, li raccoglie in un asciugamano soffice e caldo mentre io mi sforzo di non addormentarmi. Dopo un po’ sento tirar via l’asciugamano dai miei capelli e la donna comincia a massaggiarli lentamente. Attraverso lo specchio mi metto a sbirciare quello che accade dietro le mie spalle. Vedo tre signore italiane di mezza età sedute .Una con dei bigodini in testa, l’altra che chiacchiera al telefono, mentre aspetta visibilmente di fare la ceretta ai baffi, e la terza, decisamente silenziosa, che si mordicchia le labbra. Poso lo sguardo su di me dallo specchio e con sorpresa vedo che a prendersi cura della mia testa è arrivato un cinese giovane e magrolino. Nel giro di 10 minuti ha finito, e mentre ancora mi chiedo dove sia scappata nel frattempo la donna di prima, già un altro ragazzo sta terminando la mia pettinatura. È un po’ bassetto e meno giovane del suo collega. Tre persone che si occupano dei miei capelli! La cosa mi appare buffa e allegra.

Alla fine, dopo un paio di “colpetti” qua e là, dietro le orecchie e dietro le spalle, ecco che ritorna la prima cinese, la donnina carina, quella dell’appuntamento, che orgogliosa e sorridente esclama: “alle 8 e tlenta cominciale, alle 8 e qualantatle finile! Contenta?” Altro che contenta! Anzi, visto che ho un quarto d’ora di tempo vorrei parlarle di mio padre e mia madre che si sono conosciuti e innamorati in Cina. Raccontarle di come mia mamma per paura che le dessero da mangiare i topi a sua insaputa, si era nutrita per tutto l’anno scolastico di patatine fritte e uova sode, mentre mio padre inghiottiva ciotole e ciotole di riso bollito con vermi bianchi e gonfi, il suo piatto preferito cucinato dai compagni cinesi. Ma non mi è possibile, giacché, tutto d’un colpo, il negozio si è affollato di gente di tutte le età.

Me ne sono andata via, sono arrivata al lavoro alle 8 e 50, e in quei dieci minuti ancora liberi ho avuto il tempo di trovare alcuni versi cinesi del poeta Aì Qīng 艾 青: “Guarda! Tra i capelli arruffati e scomposti/ brillano due occhi allucinati”, parlava forse dei miei occhi spaventati che temevano qualche reazione micidiale dai composti cinesi chimici e criminali? Niente di tutto ciò. Dunque, alla prima occasione, affiderò di nuovo la testa a un paio di mani orientali, e a fine processo, me ne andrò via salutando a voce alta: “Xie xie!”. Non conosco altri modi per dire grazie, ma indubbiamente so che questo basterà.