L'orchestra strampalata della vita
Ecco una frase che non servirebbe allo scopo di descrivere “Wonderland”, lo spettacolo – in prima assoluta fino a domenica - che ha inaugurato ieri la stagione teatrale del Comunale di Bolzano: in mezzo alla scena ci sono... Qui la scena non ha un luogo propriamente centrale, perché l'impalcatura che lo occupa è suddivisa in sei appartamenti di una casa sventrata, minime celle dalle quali fuoriescono altrettanti personaggi strampalati, colti (in successione o in sincrono, senza tuttavia sovrapporsi) mentre agitano brevi monologhi (o dialoghi, spesso fuori campo) dei quali sarebbe del tutto vano ricostruire il senso.
Neppure avrebbe senso partire dall'inizio, infatti anche l'intreccio è talmente intricato da sconfiggere subito qualsiasi tentativo di raccontare il crepitio degli accadimenti. Tutto ovviamente voluto e, anzi, sapientemente voluto, visto che il regista (Daniele Ciprì) e i suoi collaboratori (in primo luogo Damiano Brué e Nicola Ragone, sceneggiatori, e Stefano Bollani, pianista, del quale diremo più ampiamente dopo) sono stati bravissimi ad orchestrare il nonsense, i mille incastri imperfetti con i quali lo spettacolo viene continuamente composto, scomposto e alla fine reso in frantumi. Epilogo che potrebbe essere interpretato con le parole dell'individuo più sistematico mai esistito (Hegel, parodico meta-regista filosofico), posto però – non potrebbe qui essere altrimenti – al cospetto di un assoluto che continuamente dissipa e annega i propri contorni: “Cchiù scuru di mezzanotti un po’ fari” (Più scuro di mezzanotte non può fare), proverbio che significa “peggio di così non può andare” e quindi esortazione a non perdere la speranza anche se questa si declina poi immancabilmente in lingue e dialetti diversi, ancora una volta segno di un'unità irrecuperabile e traducibile a fatica.
Se siete arrivati a leggere fin qui e non avete ancora capito bene di cosa si tratta, vuol dire che siete sulla buona strada. Wonderland, infatti, è concepito apposta per farvela smarrire, la strada. Ma siccome almeno un lacerto di struttura è indispensabile, anche a chi ha deciso di decostruirne l'ordito, ecco alcuni brevi cenni o appigli per orientarsi nel magma.
Sei appartamenti, dicevamo, accesi da altrettanti personaggi. Un cuoco (Nicola Nocella) alle prese con un cane insaziabile, un cieco (Lorenzo Lavia) intento a dialogare con la morte (il “triste mietitore”, interpretato da Mauro Spitaleri, uno dei personaggi più riusciti), un folle (Francesco Scimeni, anche lui eccellente) che forse era un mago, una soprano decaduta (Francesca Inaudi), una sognatrice ridotta a fare l'operatrice socio sanitaria (Sara Putignano), e un portiere di colore che però sta anche sui tetti a montare antenne (Stanley Igbokwe); tutti osservati da due “alieni” (Gino Carista e Giacomo Civiletti) che parlano in siciliano e osservano quel mondo di solitudini a stretto contatto (che poi sarebbe il nostro mondo, rattrappito nel microcosmo di un piccolo condominio) con lo stupore e l'innocenza necessaria a trasvalutarne poeticamente i rimandi. A cucire slabbrature e ricami il pianoforte mobile e sapiente di Stefano Bollani, senza il quale (bisogna ammetterlo) la magia sospesa e lunatica dello spettacolo non avrebbe potuto sprigionarsi. Bollani ha infatti il ruolo che un tempo era del pianista dei primi film muti, quando era necessario “commentare” le sequenze drammatizzando o allietando, dando insomma non solo uno sfondo, ma vera anima e credibile corpo ai fantasmi luminosi privi di voce che si inseguivano sullo schermo.
In un depliant che rende noti i credits (evocazioni in rebus), gli autori citano La guerra dei mondi di Orson Welles, Alice nel Paese delle Meraviglie di Luis Carroll, Ettore Scola (in effetti un film come La terrazza viene subito in mente), 2001 Odissea nello spazio di Kubrick, il Viale del Tramonto di Billy Wider, Moby Dick di Melville, Casablanca di Michael Curtiz, Il settimo sigillo di Ingmar Bergman e altre decine di titoli. Ma il gioco della decifrazione si perderebbe in un'esercizio alquanto sterile, se l'effetto d'insieme non fosse almeno divertente. Per fortuna, invece, il divertimento c'è e ci potrebbe essere anche da parte di chi non fosse in grado di coglierle, quelle citazioni. Prevale allora la leggerezza mediterranea (sicula), il senso di aver goduto di qualcosa che non si è capito, che ci frastorna, ma alla fine ci piace proprio perché non siamo riusciti ad afferrarlo. Un po' come la vita, della quale, spesso, restiamo inconsapevoli attori e spettatori.