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Re-bello, la rivoluzione è di casa

Daniel Sperandio, socio dell’azienda altoatesina green, sul futuro della moda, l’importanza delle radici, e il cambiamento climatico. “Vendiamo una storia, un sogno”.
Re-bello
Foto: Re-bello

È un momento d’oro per i tre “moschettieri” della moda made in Alto Adige Daniel ToccaEmanuele Bacchin (entrambi di Bolzano) e Daniel Sperandio (originario di Vipiteno), fondatori del marchio Re-bello. La peculiarità del progetto è l’abbigliamento rigorosamente green ottenuto attraverso l’uso dei più disparati materiali eco-sostenibili. L’azienda, che ha sede a Pineta di Laives, ha fatto il suo ingresso nel circuito della moda nel 2013 e oggi quota più di un milione di euro di fatturato. Una conquista che i tre giovani poco più che trentenni hanno messo nello scaffale degli obiettivi da centrare, non ultimo l’apertura del primo negozio monomarca. Insomma “the best is yet to come”, come diceva qualcuno. 

 

salto.bz: Sperandio, tutto comincia quando?
Daniel Sperandio
: Quando siamo usciti dall’università, il mio socio, Daniel Tocca, che ha studiato creazione d’impresa in Olanda, ha fatto un errore comune a molti, si è fatto attirare dal sostanzioso stipendio di una multinazionale, ha cominciato a lavorare in quest’azienda e a un certo punto ha capito che non era al 100% soddisfatto di se stesso. Mi ricordo che anche all’università ci dicevano sempre di valutare con attenzione le scelte da intraprendere, perché una volta iniziato diventa più difficile mollare il lavoro, il costo/opportunità di far partire un’azienda diventa molto più alto, anche perché all’inizio di certo non si fanno i soldi. Daniel ha quindi deciso di lasciare il suo posto di lavoro e di partire con il fare impresa. Già allora, in Olanda, aveva notato questo trend della moda sostenibile, e che questo tipo di tessuti avevano un bel “tatto” ma mancava completamente l’aspetto fashion, era un design che ricordava un kartoffelsack, un sacco di patate. 

E poi cos’è successo? 
Daniel ha pensato di coniugare sostenibilità e concetto di fashion, ha contattato me ed Emanuele e a noi l’idea è piaciuta subito. Eravamo convinti già al tempo che quello che stava avvenendo nel mondo del food, ovvero questo trend del biologico, avrebbe influenzato anche il settore della moda. 

Il concetto del cosiddetto “consumo etico”, in sostanza.
Esatto, ma non solo, parliamo anche di trasparenza, di condizioni di lavoro etiche e di sostenibilità. Fino a tre anni fa nessuno sapeva cosa fosse l’olio di palma e perché fosse dannoso per la salute e per l’ambiente. Siamo convinti che anche nella moda le persone cominceranno ad interessarsi di cosa c’è scritto sulle etichette, perché oggi molti ancora non sanno di cosa sono fatti i tessuti che indossiamo e da dove provengono. E a questo proposito sul nostro sito internet sarà possibile tracciare completamente ogni prodotto.

La svolta quando c'è stata?
Siamo partiti con 10 t-shirt da Rotterdam fino a Roma in macchina. Ai tempi, dopo aver studiato alla Bocconi, Emanuele lavorava nell’investment banking a Londra e io facevo consulenza a Bolzano. Siamo riusciti a piazzare le magliette in 100 negozi per la prima stagione, l’idea quindi sembrava piacere. Allora ci siamo messi alla ricerca dei primi business angel e abbiamo costituito un piccolo team e nel 2013 è nata la RB more srl. 

"Di questo passo nel 2050 avremo bisogno di due Terre e mezzo e non ce le abbiamo"

Tutti e tre siete di estrazione economico-finanziaria, la passione per la moda era autentica quando avete cominciato o è stato piuttosto un mix di fortuna e lungimiranza?
Mi ricordo che quando eravamo ragazzini spendevamo paghette intere per comprarci il jeans di marca. A tutti, del resto, piaceva vestirsi bene. Poi è chiaro che nessuno di noi è uno stilista o un designer. 

E allora vi siete affidati a una stilista di primo piano, Ivana Omazic che ha avuto esperienze di direzione creativa in maison come Prada, Miu Miu, Jil Sander, Martin Margiela, e Romeo Gigli. 
Collaboriamo con Ivana dal 2015, ha realizzato per noi quattro collezioni, le due del 2016 e le due del 2017, lo spring-summer che stiamo consegnando ora ai negozi e l’autumn-winter che stiamo proponendo. Cerchiamo nuovi investitori per finanziare la crescita, abbiamo registrato un aumento del fatturato del 60% nell’ultimo anno e ora abbiamo bisogno di altri fondi. Perché nessuno di noi vuole fermarsi qui. 

Prossimo passo affermarsi sul mercato internazionale?
Ci proviamo, per il momento le cose stanno andando bene, oggi facciamo circa il 50% di fatturato in Italia e il 50% all’estero inteso come Austria, Germania, Svizzera e Olanda. Stiamo cominciando ad affacciarci anche in Estremo Oriente e negli Stati Uniti. Sappiamo che sono mercati difficili e che ci vorrà tempo, ma intanto, qualche settimana fa, abbiamo chiuso un primo ordine in Corea. 

A quando il primo negozio monomarca?
È previsto per il 2018-2019. Stiamo sviluppando dei concetti “shop in shop” con dei partner esterni per il 2017-2018, per ora di più non posso dire.

"Nel momento in cui un capo di abbigliamento esce sul mercato è già vecchio, produciamo spazzatura, senza contare che la qualità di molti di questi abiti lascia spesso a desiderare. È come se mangiassimo tutti i giorni dentro piatti di plastica."

Il materiale eco-friendly è la pietra angolare della filosofia di Re-bello, ma quali sono gli altri cardini di questa piccola grande rivoluzione?
Il nome Re-bello richiama la “rivoluzione” del “bello”, e la moda è una delle maggiori espressioni della bellezza. È un settore che ha bisogno della rivoluzione, non è neanche più una scelta ma una vera e propria necessità. Di questo passo nel 2050 avremo bisogno di due Terre e mezzo e non ce le abbiamo. Purtroppo oggi il mercato è stato in parte plagiato dalle grosse multinazionali, ormai integrate da monte a valle, che hanno puntato sul concetto del fast-fashion. Ma come nell’alimentazione sta prendendo di nuovo vigore il trend dello slow food, sono sicuro che arriverà anche quello dello slow fashion. Ci sono aziende che fanno 17 collezioni l’anno, ma ne abbiamo veramente bisogno? Nel momento in cui un capo di abbigliamento esce sul mercato è già vecchio, produciamo spazzatura, senza contare che la qualità di molti di questi abiti lascia spesso a desiderare. È come se mangiassimo tutti i giorni dentro piatti di plastica. Ma c’è un’altra cosa che mi preme chiarire.

Prego.
Re-bello non vuole posizionarsi come l’attivista greenpeace estremo, a ognuno il suo lavoro. Noi siamo orientati verso un approccio più pragmatico e cerchiamo di migliorare concretamente passo dopo passo anche sensibilizzando il consumatore a fare scelte più sostenibili, etiche e consapevoli, il nostro motto del resto è “we want to inspire people to live consciously styled”. Mi ricordo che agli inizi quando avevamo deciso di seguire questa strada, ci chiedevano: ‘Ma perché, una maglietta 100% cotone non è forse naturale?”, niente di più sbagliato. Non sempre una materia prima è sostenibile solo perché è naturale. 

 

Tornando ai materiali, ne utilizzate di singolari per le vostre creazioni, dall’eucalipto, al bambù, all’ortica, al legno di cipresso ma anche reti da pesca, la vostra è una continua sperimentazione, non è così?
Sì, non abbiamo mai smesso di farlo, soprattutto nell’ultimo anno e mezzo. Fino al 2015 facevamo solo t-shirt e felpe e siamo arrivati oggi a fare un total look con un vero e proprio lifestyle, offrendo anche pantaloni, camiceria, capispalla. La sperimentazione è su molti fronti perché ad esempio il banale cotone organico o l’eucalipto possono essere declinati in materiali completamente diversi fra loro, dal jersey al creponne, al popeline. Le reti da pesca riciclate le abbiamo utilizzate per il rivestimento esterno di alcuni capispalla che saranno la novità del 2017, la società che ci ha fornito il tessuto è l’Aquafil di Trento.

In generale quanto è difficile reperire i materiali che vi servono?
Si trovano più o meno difficilmente, e sono tutti certificati sul mercato. Altri vengono sviluppati dopo aver fatto ricerca in collaborazione con i fornitori. Faccio un esempio: avevamo questo jersey bellissimo, 100% eucalipto, molto liscio, setoso, un po’ lucido, che era perfetto per la donna. Volevamo qualcosa che si adattasse anche all’uomo, ma dovevamo togliere quella lucentezza, allora con il fornitore abbiamo mischiato filati di cotone organico con quelli di eucalipto ottenendo il risultato sperato. L’anno scorso poi avevamo in progetto di realizzare dei capispalla imbottiti, cercavamo materiale sintetico ma sostenibile e abbiamo trovato il filato Pet Newlife che tratta le bottigliette di plastica riciclate. A quel punto ci serviva l’imbottitura. Sapevamo che molta lana tirolese viene gettata via perché troppo poco soffice per impiegarla nei tessuti e allora abbiamo provato ad usarla, ma i primi risultati sono stati un disastro perché non poteva essere lavata. Dopo diverse ricerche troviamo un’azienda di Cittadella che aveva escogitato un modo per far restare stabile la lana anche al lavaggio. Fatti i primi capi si presenta un altro problema: la lana di montagna essendo grezza usciva dal tessuto, ma una soluzione alla fine l'abbiamo trovata. Questo per dire che è un’innovazione continua, perché queste cose non le fa ancora nessuno. 

Parlando di strategie di marketing qual è il vostro rapporto con i social?
Puntiamo molto sull’online marketing, collaboriamo anche con diversi blog, ma abbiamo anche una strategia di marketing offline, lavoriamo molto con i comunicati stampa, recentemente hanno scritto di noi l’Huffington Post, il Corriere della Sera e il Sole 24 ore. Lavoriamo principalmente con Facebook e Instagram per il “b-to-b-to-c”, mentre per la parte più professionale utilizziamo piuttosto Twitter e LinkedIn. I social li usiamo e li riteniamo strategici ma potremmo sfruttarli molto di più, ed è quello che abbiamo intenzione di fare nel prossimo futuro. In tutta onestà poi, devo dire che ultimamente a livello personale li uso molto poco.

Una mosca bianca…
Essendo tutto il giorno online e davanti al computer per lavoro quando stacco chiudo anche i device e me ne vado in montagna, una delle mie più grandi passioni.

Qualche testimonial celebre lo avete già?
Al personaggio famoso, tipo Leonardo DiCaprio che indossa la maglietta Re-bello, ancora non ci siamo arrivati, purtroppo, ma ci stiamo lavorando [ride]. Abbiamo però fatto uno shooting con il foodblogger Stefano Cavada perché, in quanto altoatesino, ci rappresenta e noi teniamo molto alle nostre radici. La scelta di restare in Alto Adige, del resto, è voluta.

Ma la moda si fa a Milano...
C’è poco da fare, è vero, il network è lì e nelle grandi città. Eppure credo che anche l'Alto Adige abbia i suoi vantaggi. Re-bello è un’azienda sostenibile, ci piace guardare fuori dalla finestra e vedere questo panorama [indica le montagne, ndr]. Siamo molto vicini geograficamente a tutto il mercato “Dach” che può essere visto come domestico, essendo bilingui infatti lavorare in Italia o in Germania è la stessa cosa per noi, non ci sono barriere. Localmente ci sono agevolazioni e supporti per ricerca e sviluppo e anche per l’internazionalizzazione, quindi non direi che stiamo andando male. 

"Di capi belli ce ne sono a milioni ma noi raccontiamo qualcosa, più che abbigliamento vendiamo un sogno, una storia, e questo ci rende diversi da tutti gli altri."

Se c’è qualcosa che ci hanno insegnato film come il “Diavolo veste Prada” o documentari come “The September Issue” è che la concorrenza nella moda, forse più che in altri campi, è spietata. Come si tiene a bada l’“ansia da prestazione”?
Diciamo che certe dinamiche appartengono più alle grosse aziende, dove a volte si sente di persone che a 30-35 anni fanno ancora gli stagisti. È un mondo frenetico ma noi siamo ancora piccoli, poi certo, la concorrenza sul mercato esiste, anche perché di marchi di moda ce ne sono moltissimi ed è difficile affermarsi e riuscire ad attirare l’attenzione dei consumatori, però io credo che abbiamo un background unico. Di capi belli ce ne sono a milioni ma noi raccontiamo qualcosa, più che abbigliamento vendiamo un sogno, una storia, e questo ci rende diversi da tutti gli altri. 

Durante la sua campagna elettorale Donald Trump ha messo in dubbio le ricerche che hanno dimostrato che l’inquinamento prodotto dall’uomo è una causa diretta del riscaldamento globale, accanto ad affermazioni del genere c’è l’oggettività del fatto che poco è stato fatto per affrontare il problema. In una società globale in cui il modello economico è basato su una crescita e quindi un consumo indiscriminati come si può combattere il cambiamento climatico? Abbiamo forse già fallito?
Trovo l’opinione di Trump molto superficiale, il fatto che stiamo consumando più di quanto dovremmo è un dato di fatto senza contare che ci sono forti interessi in ballo. Non credo che abbiamo fallito, ma c’è tanto da fare. È indicativo che la moda sia il secondo settore più inquinante al mondo dopo quello petrolifero. E proprio nella moda occorre più consapevolezza, comprendo che non tutti abbiano a disposizione grandi budget ma si tratta di privilegiare la qualità alla quantità, passare alle fibre sostenibili e al rigenero delle risorse. Pensiamo al fatto che in futuro non avremo cotone a sufficienza per poter vestire tutti anche perché i campi “rubano” superficie alimentare e dunque vanno necessariamente trovate delle alternative che preservino il nostro ecosistema.

Dove si vede fra dieci anni?
Spero di vedere un’azienda di successo, la nostra, che è riuscita a trasmettere un messaggio e a cambiare il modus operandi di tutto il settore e quindi a generare talmente tanto interesse nel consumatore finale da aver coinvolto in questa nostra missione anche i big player. 

Di vendere il marchio, quindi, non se ne parla.
No, è la nostra creatura, poi, va da sé, mai dire mai.