Il nodo perfetto
Epistenologia (Mimesis/Il caffè dei filosofi, 2016) è un libro minuto – appena 100 pagine – ma molto ambizioso. Frammento di una possibile autobiografia intellettuale, diario di una svolta, epistola erotica, pamphlet contro gli analisti sensoriali, trattato sul modo di vivere il vino (e non semplicemente degustarlo, la distinzione è centrale), il volumetto di Nicola Perullo rappresenta un documento intimo, molto personale e perciò quasi intraducibile utilizzando i codici di un vissuto non individuale; al contempo, però, può anche essere letto come un manifesto, una proposta di concepire universalmente i fenomeni estetici, dei quali il frutto dell'uva rappresenta sia il focus privilegiato che un possibile punto di partenza.
Incontrare il vino
Per comprendere il contenuto “positivo” di Epistenologia occorre tratteggiare, anche solo di scorcio, lo sfondo polemico sul quale si staglia. Accostandoci a un vino con l’intenzione di descriverlo disponiamo da tempo di una griglia interpretativa, di un paradigma sedimentatosi in un repertorio di formule orientate alla sua possibile oggettivazione “a distanza”. Perullo ne ricostruisce il profilo illustrando come la scuola enologica dell’Università di Davis (California) riuscì ad imporre un’idea di questa bevanda intesa alla stregua di un “bene di consumo da produrre nella maggiore quantità e redditività secondo standard omogenei e affidabili”. Ecco dunque “il vino, schedato unicamente in funzione della varietà del vitigno, come una schiera di figuranti con ruoli predefiniti pensati da un regista anaffettivo e mediocre” e “la degustazione sensoriale (che) considera il gusto come un dispositivo distale”, secondo una modalità d’osservazione che, cercando di imitare gli sforzi di neutralizzazione praticati dalle scienze esatte, perde però la presa sulla materia vivente della quale il vino è invece coinvolgente espressione. Conseguentemente, anche le parole del vino, quelle che siamo abituati ad ascoltare nelle sedute tecniche di degustazione, si pietrificano in uno sterile “gruzzolo cognitivo”, esplicato per esempio dalle “ruote aromatiche entro cui dovremmo infilare e adattare le nostre narici, al fine di riconoscere i profumi e (…) l’essenza dei vini”. Pur non negando la parziale utilità di un simile modo di procedere, Epistenologia si propone “ereticamente” di ridurre quanto più possibile ogni tipo di distanza esperienziale, invitando così chi beve a riconoscere (e riconoscersi in) un flusso di intuizioni che si allargano da ogni lato, in modo cooperativo e creativo, e generano la fenomenologia di un vero e proprio incontro: “Incontrare il vino è aprirsi alla magia della consapevolezza creativa a cui siamo esposti, contribuendo al suo farsi”.
Montaigne, lo sciamano e la saggezza del gusto
Un riferimento filosofico imprescindibile di Epistenologia, non a caso citato nella bibliografia che lo chiude, è rappresentato dai Saggi di Michel de Montaigne. Si legga per esempio il passaggio in cui il grande “scettico” rinascimentale spiega in cosa consista il suo metodo conoscitivo: “Non descrivo l’essere, descrivo il passaggio: non il passaggio da un’età a un’altra, o, come si dice volgarmente, di sette anni in sette anni, bensì di giorno in giorno, di minuto in minuto. Devo aggiornare il mio racconto ora per ora. Da un istante all’altro potrebbero cambiare non solo la mia condizione, ma anche i miei intenti. Il mio è un registro di accadimenti disparati e mutevoli, e di pensieri cangianti e talora contraddittori: sia perché sono sempre diverso da me stesso, sia perché colgo gli oggetti in circostanze e da angolazioni diverse”. E ora si legga Perullo: “Nessuna adaequatio rei et intellectus: i segni col vino corrispondono in quanto performano, sono performativi perché corrispondono – l’epistenologia è prima di ogni suddivisione ipostatica tra constativi e performativi. Parole, gesti o figure, espressioni di ogni sorta non raffigurano stati di fatto ma partecipano, realizzano, esprimono situazioni significative, scene di senso nelle quali riconosciamo l’ecologia complessiva che stiamo vivendo e, insieme, tutte le percezioni con cui facciamo il mondo bevendo. La differenza tra il dire ed il detto è ciò che distingue, sul piano linguistico, la percezione aptica da quella optica, processo ed oggetto, vino/sostanza da vino/prodotto”. Si tratta ben più di una consonanza, o peggio, di una mera applicazione. È il tentativo di riconquistare la presa sul mondo senza tuttavia afferrarlo, ossia toccandolo e lasciandosi toccare per aderire in modo tattile alle pieghe che ci intrecciano a lui. Quando gustiamo “un” vino, che poi è sempre “il” vino che stiamo gustando, quel particolare vino, in una situazione peculiare e per definizione irripetibile (il che non esclude però che se ne possa dar conto in modo immaginativo, ed è qui tutta la posta in gioco di Epistenologia), non stiamo mai in realtà semplicemente davanti a un oggetto (Gegenstand) inerte, dal quale dovremmo cavare proprietà oggettive, a loro volta statiche e stabilizzate, ma, come detto, incontriamo “qualcosa” (o forse addirittura “qualcuno”, visto che si potrebbe anche pensare d’incontrare il vino come si incontra una persona, col suo stile, il suo carattere, la sua anima) e allacciamo una relazione dinamica (la metafora del nodo attraversa e, letteralmente, stringe tutto il testo) capace d’innescare una conoscenza continuamente cangiante, che si modifica e che modifica sia chi beve sia ciò che è bevuto. Non è un caso, dunque, che a un certo punto, parlando della “saggezza del gusto” e della “creatività del tatto”, si compia un recupero della dimensione fisiologica del sapere incarnato (ovviamente più nel senso proposto dall’antropologia di Tim Ingold che non in quello rappresentato dal celebre libro di Brillat-Savarin) culminante addirittura in una affascinante versione laica dello sciamanesimo: “Ci trasformiamo col vino: divertendoci (di-vertire), emozionandoci (e-movere) e godendo (alcuni pongono l’etimologia di gaudere come discendente dal greco gheusis, gusto). La creatività del tatto è saggia perché è la capacità di transitare, di distrarsi proseguendo saldi nel percorso intrapreso. E quando gustiamo, attirati nel flusso tattile che ci fa aderire al sentire, ci fidiamo della nostra capacità di discernere l’autentico dal fasullo. È la saggezza del gusto: la capacità aptica di saper percepire, che è anche la capacità di creare. Per essere aptici bisogna dunque diventare sciamani, esploratori del mondo animato, diagnostici e medici, sensibili abitatori del mondo. La percezione tattile non afferrante ci permette una presa della realtà allentata e mescolata con essa, non solo con gli artefatti e non solo col vino ma in ogni rapporto”.
Autenticità versus oggettività (e rischi connessi)
Epistenologia è un libro molto ispirato, a tratti poetico, che ha l’indubbio merito di rompere con la tradizione ingenua (ma al contempo molto presuntuosa) di un sapere enologico oggettivante. Abbandonando però le (false) certezze di un sapere condiviso, si palesa anche il rischio di porre il lettore davanti a un compito emulativo che potrebbe stimolarlo ad un indebito salto nell’approssimazione (la distinzione tra uno sciamano e un ciarlatano, del resto, è più fondata della mera assonanza dei nomi). Perullo ne è consapevole: “Il tatto interno è creativo perché si muove a tentoni: a ogni passo si produce una nuova decisione che marca un tratto di strada. Per questo l’incontro, e anche l’incontro col vino, è un’esperienza estetica in senso completo. L’imprevedibilità del tatto, esperita con gusto più pieno nell’assaggio aperto e stupito, contribuisce a un’arte della vita che si guadagna ogni volta, senza che nulla sia mai dato per certo”. Vengono in mente qui le parole che Ludwig Wittgenstein (un altro degli autori cari a Perullo) scriveva nelle sue Vermischte Bemerkungen: “Mostro ai miei allievi ritagli di un paesaggio smisurato, dove per loro è impossibile orientarsi”. Per orientarsi dentro a un libro come Epistenologia occorre allora avere la capacità di affidarsi (nella parola non risuona forse il ricordo della Pistis, ovvero la personificazione della buona fede e dell’affidabilità?) al gesto di un sapere sempre immanente alle relazioni che instaura, e che dunque le approfondisce cumulando e concentrando ogni genere di possibile esperienza nell’atto individuale – mai del tutto riducibile – a un modello predefinito (come un token che non coinciderà mai pienamente col suo type). “Quando ho incontrato il vino la prima volta? Quando mi accorsi dei suoi poteri innescanti relazioni che polverizzavano i meccanismi ingessati e prevedibili dell’abilità, dei riconoscimenti aromatici, delle tipologie scritte e codificate da grammatici senza fantasia – disperati grammatici non in cerca di frasi vere, ma di oggettività astratte per mitologiche protezioni delle loro esistenze dal flusso incessante del fiume? Non è avvenuto troppo lontano nel tempo, e non ci sono state ierofanie né folgorazioni sulla via di Damasco quanto una progressiva evoluzione feroce”. Parafrasando Ungaretti, si potrebbe anche dire: l’autenticità del vino s’incontra bevendolo.