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Debutta la Compagnia universitaria

Francesco Ferrara e Salvatore Cutrì raccontano “Essere E.” spettacolo del Tsb che va in scena oggi (3 giugno). Sul palco ragazzi di Unibz.
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Foto: Giorgia Bisanti

Francesco Ferrara e Salvatore Cutrì, entrambi diplomati al Teatro Bellini di Napoli rispettivamente in drammaturgia e recitazione, stanno lavorando allo spettacolo-restituzione Essere E. interpretato dalla Compagnia Teatrale Universitaria e creato dal Teatro Stabile di Bolzano in collaborazione con l’Ufficio Politiche Giovanili della Ripartizione Cultura Italiana della Provincia Autonoma di Bolzano, la Libera Università di Bolzano e il Centro di Cultura Giovanile Vintola 18. Ci hanno spiegato di cosa si tratta.

Qual è stato l’obiettivo che ha dato il via a questo progetto?

Salvatore: L’obiettivo era fornire ad un gruppo di studenti dell’università di Bolzano l’opportunità di conoscere il mestiere teatrale. O meglio, i vari mestieri che contribuiscono alla riuscita di uno spettacolo: regia, drammaturgia, recitazione, scenografia, costumi e tecnica. Ci interessava avvicinare i partecipanti a quello che è il processo insito nella creazione di uno spettacolo, fornendo loro un’esperienza totalizzante. Non avevamo la presunzione di formare degli attori in un tempo così limitato, anche se questo non significa che non abbiamo affrontato la tecnica attoriale. Lo scopo del progetto era però quello di dare ai ragazzi, grazie proprio all’accesso alle varie forme d’arte che compongono il mondo del teatro, una certa autonomia nel caso in cui qualcuno dovesse mostrare il desiderio di proseguire in quest’ambito. Ecco perché nasce il nome di Compagnia Universitaria. C’è la speranza che questo progetto possa permettere a chi ama questo linguaggio di poter sfogare la propria esigenza creativa anche dopo la fine del laboratorio.

I partecipanti si sono quindi divisi i compiti a seconda dell’ambito scelto?

Francesco: No, il percorso è stato collettivo fin dall’inizio e prevedeva dei moduli tematici. Salvatore e io – che comunque eravamo sempre presenti in qualità di tutor – abbiamo sviluppato quelli legati alla regia, drammaturgia e recitazione. Elena Beccaro e Denise Carnini si sono occupate invece di quelli legati ai costumi e alla scenografia. Quindi tutti i partecipanti hanno avuto modo di vedere e di fare esperienza delle varie parti che compongono uno spettacolo. Il percorso è durato un anno e si conclude con la restituzione che si terrà sabato 3 giugno alle ore 17:00 al Teatro Studio.

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Salvatore Cutrì: "L’obiettivo era fornire ad un gruppo di studenti dell’università di Bolzano l’opportunità di conoscere il mestiere teatrale"  Foto Giorgia Bisanti

 

Il titolo “Essere E.” da dove nasce?

Francesco: Il titolo nasce da una prima ispirazione che abbiamo avuto durante il corso  e che faceva riferimento ad Erostrato, un pastore greco della città di Efeso che, per ottenere una fama tale da rendere immortale il suo nome, decise di bruciare il tempio di Artemide nonché una delle sette meraviglie del mondo antico. Durante il processo fatto dai concittadini fu condannato a morte e alla damnatio memoriae, che prevedeva il divieto di citare il suo nome da quel momento in poi. Siamo partiti da questo spunto per ragionare sul concetto di visibilità ed indagarne le varie declinazioni che può avere oggi. Lo abbiamo fatto in modo molto aperto, senza vincoli, perché non avevamo il desiderio di parlare specificatamente di Erostrato che, come detto, ha rappresentato solamente il punto di partenza. Lo scopo del percorso era infatti quello di abbandonarsi ad un processo creativo, dandosi a volte anche la possibilità di perdercisi dentro. In pratica conoscevamo il punto di partenza ma non quello di arrivo. Da Erostrato siamo così arrivati a un “E.” generico, che poi sta nel titolo, che vuole includere tutti noi, perché ognuno in qualche modo arriva a fare esperienza del desiderio di visibilità.

Durante il percorso si è creata una complicità tra i ragazzi?

Francesco: Assolutamente sì. Inizialmente i partecipanti erano più di venti, poi pian paino il gruppo si è scremato e adesso in tutto sono in undici e sono molto affiatati. Direi che è inevitabile che nasca della complicità, perché fa proprio parte del percorso teatrale e di come Salvatore e io abbiamo deciso di impostare questo lavoro. Intendo che non ci siamo presentati con un testo fatto e finito, pronti per fare un corso di recitazione asettico. Fin dal primo incontro abbiamo detto che, più che insegnanti, saremmo stati dei loro compagni di viaggio. In tal senso gli esercizi tecnici sono serviti per permettere ai ragazzi di lasciarsi andare.

E come hanno reagito i partecipanti a questo modo di lavorare?

Salvatore: La loro risposta è stata estremamente vitale. Si sono messi molto in discussione e, tra l’altro, hanno messo in discussione pure noi, cosa non scontata. È stato molto bello e a volte bisognava arginare questa loro risposta, perché avevamo il compito di darle forma per farne la restituzione che si vedrà sabato. Questi undici che sono rimasti e che vedrete in scena ci credono davvero.

Nella nostra società la creatività viene spesso sacrificata in favore di un approccio puramente performativo che impedisce una libera espressione di sé. Cosa ne pensate?

Salvatore: Penso che non si tratti solamente di occasioni negate dalla società, ma anche di come ci si pone quando devi tenere un corso, una lezione o quello che vuoi. Per noi poter dare ai ragazzi un’occasione di sfogo è sempre stata una delle nostre priorità. Non basta essere a teatro per potersi sentire liberi, devi avere di fronte qualcuno che ti permette di esserlo.

Marlon Brando diceva che la recitazione è un unguento sociale che ci permette di sopravvivere nella quotidianità. Che differenza c’è tra la recitazione intesa in questo modo e quella che si svolge in teatro?

Salvatore: È molto semplice, è come la differenza tra un amatoriale e un professionista: un professionista sa replicarlo. Sei un vero attore quando replichi una sensazione, un’emozione, o in generale quello che devi portare in scena sera dopo sera. Nella vita di tutti i giorni invece magari ti riesce bene una volta su dieci. Già Shakespeare, ben prima di Marlon Brando, diceva che il mondo è un teatro ecc. La metafora della vita come un enorme teatro funziona e funzionerà sempre, ma non tutti riescono a ricavarne un mestiere, la differenza sta tutta qui.

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Francesco Ferrara Inizialmente i partecipanti erano più di venti, poi pian paino il gruppo si è scremato e adesso in tutto sono in undici e sono molto affiatati Foto Giorgia Bisanti

 

Per poter interpretare qualcun altro, l’attore deve per prima cosa entrare in contatto con le proprie emozioni. È un cosa che i partecipanti al laboratorio sono riusciti a fare con facilità?

Francesco: Inizialmente c’è stata un po’ di difficoltà nello sbloccarsi. La situazione un po’ li aveva intimiditi, chi più chi meno, come è normale che sia. Poi però ci sono stati dei momenti di grande apertura emotiva, soprattutto quando abbiamo dato loro da svolgere un esercizio di scrittura che poi prevedeva una messa in scena. Ovviamente, come diceva Salvatore, riuscire a replicare quell’emotività richiede un lavoro intenso che è quello che poi ti porta ad essere un attore e che richiede tempo. Per questo ci teniamo a dire che quella di sabato sarà una restituzione, più che uno spettacolo. E non è per togliere dignità al lavoro, anzi, è per rispettarne le caratteristiche e avvisare il pubblico che quello che vedrà sarà il risultato di un laboratorio tenutosi da ottobre a giugno con tre incontri al mese da tre ore ciascuno.

Salvatore: Inoltre, il lavoro sulle emozioni che abbiamo fatto in questo laboratorio è sempre stato fatto in favore del gruppo e di quello che poi andrà in scena. Non è mai stato pensato come fine a se stesso, e questo in qualche modo aiuta a non perdersi troppo. E ti dico di più, il fatto di avere delle battute da ricordare, dei movimenti scenici da riprodurre ti aiuta anche a prendere un po’ le distanze da quelle emozioni così da salvaguardarti da quel loop poco piacevole che ne potrebbe scaturire.

Mi sembra di capire che siate felici di come sia andato il progetto.

Assolutamente, infatti speriamo possa essere riproposto anche l’anno prossimo.

Secondo voi in Italia il teatro è considerato un’arte di nicchia a cui i giovani si affacciano con più difficoltà rispetto ad esempio alla musica?

Salvatore: Certo, infatti un progetto come questo ha anche il pregio di rendere più accessibile un mondo che, appunto, può essere considerato di nicchia e in un certo senso lo è. Se ci pensiamo, però, c’è anche un motivo per cui le cose stanno così. Se vuoi cominciare a fare musica puoi farlo nella tua camera, con uno strumento o un pc. Il teatro invece necessita di almeno due persone, implica una relazione.

Cosa vorreste che trasmettesse al pubblico questo spettacolo?

Speriamo che passi l’entusiasmo che i ragazzi hanno dimostrato lungo tutto questo percorso e il livello di divertimento, oltre che di fatica, che abbiamo raggiunto tutti assieme.