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Perché le diagnosi BES sono raddoppiate?

Ilaria Perrucci (Ordine Psicologi): "Troppe certificazioni? Genitori e istituzione scolastica sono più sensibili al tema. Per i disturbi dell'attenzione è molto critico l’uso precoce e non mediato degli smartphone". La scuola è pronta per la sfida?
  • SALTO Dottoressa Perrucci,  qualche giorno fa SALTO ha pubblicato una tabella della Sovrintendenza con i dati delle diagnosi di Bisogni educativi speciali dell'ultimo decennio in cui si vede una progressione impressionante. Lei che è referente della consulta della Psicologia scolastica per l’Ordine degli Psicologi della Provincia di Bolzano come si spiega un dato così diverso dal resto d’Italia ed anche una differenza così grande tra scuole italiane e scuole tedesche?

    Ilaria Perrucci: Sì, i numeri sono effettivamente molto più alti rispetto alla media nazionale. Tuttavia, ritengo essenziale leggere i dati ampliando la nostra lente: la colonna che può destare stupore, quella delle certificazioni ai sensi della Legge 170, non riguarda solo i Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA), ma include anche ciò che riguarda la “Direttiva Profumo”. Si tratta di una quota significativa di alunni che hanno diagnosi come ADHD in assenza di altre comorbidità e che quindi non hanno diritto automaticamente ad una legge 104 scolastica, i disturbi d’ansia, i disturbi emotivi, quindi non DSA in senso stretto, ma che comunque hanno diritto ad un piano didattico personalizzato, di seguito PDP per bisogni educativi speciali. Questo potrebbe spiegare in parte la discrepanza con i dati italiani e con le scuole di lingua tedesca, i quali, è possibile, utilizzino strategie di gestione diverse. Inoltre è importante sottolineare che per quanto riguarda le statistiche riguardanti le prevalenze contenute nel DSM 5 (Diagnostic and statistical manual of mental disorders 5th ed), i dati riguardanti la popolazione con DSA oscilla tra il 5% e il 15% a seconda delle caratteristiche del campione e dei criteri adottati. Ritengo pertanto che le scuole in esame potrebbero avere un’ottima formazione in funzione del riconoscimento dei segnali riguardanti i BES e la loro presa in carico.

  • Foto: SALTO
  • C’è chi dice che alle prime difficoltà dei figli sono i genitori a rivolgersi a più psicologi e a “pretendere” la diagnosi allo scopo di alleggerire il peso delle pressioni scolastiche. E’ un fenomeno reale? Si può parlare di iper diagnosi? E come mai qui da noi più che altrove?

    Posso confermare dalla mia esperienza clinica che, soprattutto dopo il periodo del covid i genitori sono sempre più sensibili al tema dell’ansia collegata alla scuola e alle pressioni scolastiche. L’ipotesi delle iper diagnosi potrebbe essere una lettura. Tuttavia, confido nel lavoro dei miei colleghi e in quello dei servizi sanitari in Alto Adige. Pertanto è vero che in alcuni casi si cerchi una spiegazione diagnostica  a delle difficoltà scolastiche ma questo non vuol dire necessariamente che le diagnosi siano inappropriate. Dalla mia esperienza clinica la maggior parte delle diagnosi trova un suo fondamento. Ciò che bisognerebbe chiedersi è se,  ad oggi, il sistema riesce a fornire risposte adeguate e differenziate o se ci sarebbe bisogno di implementare le risorse. 

  • Ilaria Parrucci: Psicologa dell'età evolutiva Foto: I.P.
  • Le “diagnosi” per tutti i bisogni educativi speciali sono comunque in aumento ovunque. Cosa sta succedendo? C’entra davvero la prepotenza con cui i social e l’uso degli smartphone stanno cambiando le vite di tutti, a partire dai bimbi?

    E’ vero. I BES sono in crescita a livello globale. Le cause affondano le loro radici in diversi fattori: ambientali, relazionali, cambiamenti culturali e anche tecnologici. Viviamo in una società narcisistica/ post narcisistica in cui vige la regola della performance, della “caccia all’errore e della ricerca della perfezione. Tra gli elementi più critici vi è senza dubbio l’uso precoce e spesso non mediato dei dispositivi digitali. Questo incide significativamente sulla capacità di attenzione, sulla regolazione emotiva e sullo sviluppo del linguaggio. Studi recenti hanno evidenziato l’impatto diretto dell’eccessiva esposizione agli schermi su ritardi nell’acquisizione del linguaggio e difficoltà di autoregolazione nei bambini. Ai genitori faccio spesso una domanda provocatoria: “Dareste mai un pezzo di carne a un neonato al posto del latte?” La risposta, ovviamente, è no. I neonati non hanno ancora le strutture fisiche necessarie per ingerire e digerire quel tipo di alimento. Allo stesso modo, un bambino di pochi mesi non ha le strutture cerebrali pronte per elaborare e regolare certi stimoli digitali. Non si tratta solo di “limitare lo schermo”, ma di rispettare i tempi dello sviluppo neuroevolutivo. Detto questo, non posso asserire con certezza matematica che siano i dispositivi in sé a generare un disturbo. Potrei dire, piuttosto, che costituiscono un fattore che può accentuare vulnerabilità preesistenti, se non mediato da una relazione adulta presente e consapevole. La famiglia, la scuola e tutti i contesti educativi dovrebbero offrire al bambino contenimento, guida e ascolto, aiutandolo a tollerare la frustrazione, a riconoscere e gestire le emozioni difficili, invece di “tamponarle” offrendo un dispositivo in risposta a noia, rabbia o disagio.

    Un articolo uscito sul NY Times che propone di rivedere il modo in cui pensiamo all’ADHD ha creato un ampio dibattito. Lei cosa ne pensa?

    Credo che sia sempre utile riaprire un dibattito sull’ADHD in quanto è un disturbo del neurosviluppo di tipo multifattoriale e complesso e merita pertanto una riflessione costante. Ciononostante, non possiamo banalizzare l’ADHD e né tanto meno ridurla a “difficoltà comportamentali” da spiegare solo con l’ambiente scolastico o con la famiglia. Infatti l’approccio del DSM 5 è di tipo dimensionale per cui analizza diversi domini collegati alla persona: attenzione, impulsività, iperattività, regolazione emotiva. Risulta doverosa una lettura integrata, scientifica, meno ideologica, che tenga conto delle neurodiversità e dell’impatto del contesto nel quale è immersa la persona.

  • Foto: SALTO
  • I ragazzi che lei vede per lavoro le danno l’idea che la scuola riesca ad essere davvero inclusiva come vorrebbe essere? Dove riscontra le difficoltà maggiori?

    Spesso i ragazzi che incontro nei miei percorsi riferiscono di non sentirsi pienamente inclusi, in particolar modo quando non riescono a rispondere agli “standard” di alcune scuole. Il tema più saliente?! Il sistema valutativo talvolta rigido e orientato sull’apprendimento nozionistico scevro da tutto ciò che riguarda gli aspetti emotivi dei ragazzi e le loro fasi di vita. Difficoltà riguardanti l’empatia e di costruire relazioni efficaci. Frustrazione nel vedere talvolta i piani didattici personalizzati come documenti formali che non si traducono in strategie inclusive.

    Parlando in generale, lei ha la sensazione che la classe docente sia preparata per affrontare questa problematica?

    Fortunatamente l’intendenza scolastica di Bolzano ha molto a cuore l’inclusione. I docenti hanno obblighi formativi in tal senso. Posso dire pertanto, che  gran parte degli insegnanti, soprattutto della scuola primaria, mostra di avere una preparazione adeguata per affrontare il tema dell’inclusione. Andando avanti con i gradi scolastici noto sempre più insegnanti appassionati e competenti. Questo è molto positivo. Tuttavia, non sempre, mostrano di avere gli strumenti e il tempo sufficiente per rispondere a bisogni complessi. Vedo sempre più insegnanti di sostegno aggiornarsi attivamente. Il mio invito, però, è rivolto in particolare agli insegnanti curriculari: è fondamentale creare un dialogo costante con i colleghi di sostegno, valorizzarne le competenze, affidarsi al confronto reciproco e intraprendere percorsi formativi condivisi. L’inclusione, per essere reale ed efficace, richiede formazione continua, lavoro di rete, supporto da parte degli psicologi scolastici e una visione sistemica. Non si può lavorare da soli. L’inclusione non è responsabilità di uno, ma una costruzione collettiva che si realizza solo se tutti partecipano con consapevolezza e corresponsabilità.

  • Foto: SALTO
  • E le famiglie? Che cosa si può dire alle famiglie?

    Alle famiglie direi, prima di tutto, di non avere paura di osservare ciò che accade nei loro figli. I segnali di difficoltà non devono spaventare, ma possono diventare occasioni  di ascolto e crescita, se affrontati con serenità. Il mio consiglio è quello di porsi a metà strada tra il negazionismo “passerà” e l’eccesso di apprensione e medicalizzazione “ha bisogno necessariamente di una diagnosi”. Ciò che conta è affidarsi a professionisti competenti, mantenere un dialogo aperto con la scuola, e soprattutto non delegare al dispositivo digitale la gestione delle emozioni. Un bambino che sperimenta rabbia, noia o frustrazione non ha bisogno di un tablet, ma di un adulto capace di contenere la sua emotività, anche quando è faticosa.

    E il mondo della psicologia dell’età evolutiva? Negli ultimi 15 anni sembra davvero “cambiato il mondo”. Si sa che negli Stati uniti i farmaci vengono prescritti senza problemi anche ai ragazzi. Qui? Com’è la situazione?

    E’ vero. Negli ultimi 15 anni, la psicologia dell’età evolutiva ha subito un radicale cambiamento, fortunatamente. Oggi siamo molto più attenti alle neurodivergenze, alle differenze individuali, ai fattori ambientali e culturali. Abbiamo strumenti più precisi per osservare, diagnosticare e intervenire in modo tempestivo. L’aspetto farmacologico non rientra nel mio campo d’azione. Posso dire ciò che osservo in funzione della mia collaborazione con diversi neuropsichiatri sul territorio. Prevale un approccio integrato. La farmacoterapia è considerata una risorsa utile in determinati casi e viene sempre valorizzato il percorso multidisciplinare. Non è l’unica soluzione bensì inserita in un percorso di rete.

    Il problema del numero delle diagnosi molto alto viene dibattuto dalla categoria? Che cosa vi dite? Ci sono delle linee guida precise e attualizzate costantemente oppure il rilascio della diagnosi dipende molto da psicologo a psicologo. Le capita frequentemente di dire: ma come mai a questo bimbo o ragazzo è stata fatta questa diagnosi. O viceversa?

    Sì, è sicuramente un tema dibattuto. Tuttavia, non parlerei di “iper-diagnosi”, quanto piuttosto di un aumento delle richieste da parte delle famiglie e delle scuole, e di una maggiore attenzione clinica nel riconoscere segnali di disagio o tratti specifici del neurosviluppo. Rispetto al passato, c’è anche una preparazione più mirata da parte dei professionisti, che oggi riescono ad intercettare precocemente anche segnali più sfumati, grazie a strumenti sempre più sensibili e aggiornati. Come Ordine degli Psicologi della Provincia di Bolzano, riteniamo fondamentale il tema della formazione. Per questo investiamo costantemente in percorsi formativi dedicati ai professionisti, anche in collaborazione con l’Intendenza scolastica, proprio per garantire uniformità, aggiornamento scientifico e rispetto dei protocolli ufficiali. Nel lavoro clinico, infatti, non si procede in modo arbitrario: esistono linee guida nazionali e regionali, come quelle sull’ADHD, sui DSA e sui disturbi del neurosviluppo, nonché protocolli condivisi tra psicologi, neuropsichiatri infantili e diverse figure coinvolte, che aiutano a mantenere un rigore valutativo, evitando sia sottodiagnosi che eccessi. Certo, la sensibilità clinica del singolo professionista ha un ruolo, ma è incardinata all’interno di un sistema che oggi, più che mai, mira a garantire appropriatezza diagnostica, lavoro in rete e presa in carico globale.

    Ultima domanda: l’autismo. Dalla sua esperienza e secondo gli ultimi studi, a cosa è dovuta l’esplosione di casi?

    Anche in questo caso parlerei non tanto di un’esplosione reale, quanto di una maggiore capacità di riconoscimento, soprattutto delle forme meno evidenti, come l’autismo di livello 1, che spesso in passato passavano inosservate o venivano denominate in altri modi. Oggi disponiamo di criteri diagnostici più inclusivi (come quelli del DSM-5), strumenti di valutazione più sensibili, e soprattutto una crescente attenzione clinica e scolastica. Riconoscere precocemente anche i profili a basso impatto comportamentale consente di attivare interventi tempestivi, migliorando la qualità della vita e la traiettoria evolutiva del bambino.  In ultima istanza vorrei che passasse il messaggio che la diagnosi non è un’etichetta. Non è un marchio. Bensì è uno strumento che ci consente di comprendere il funzionamento del cervello delle persone che abbiamo di fronte e ci consente di predisporre dei percorsi abi/riabilitativi in modo tempestivo ed efficace così da poterne migliorare la qualità di vita e il loro benessere. 

  • Chi è

     Ilaria Perrucci, psicologa, psicoterapeuta esperta in DSA e difficoltà scolastiche, consigliera e referente della consulta della Psicologia scolastica per l’Ordine degli Psicologi della Provincia di Bolzano

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Martin Sitzmann Mi., 18.06.2025 - 16:24

L'unico "bisogno educativo speciale" utile sarebbe di togliere a questi alunni OGNI dispositivo digitale per svezzarli dalla sovrastimolazione e sovraeccitazione.

Mi., 18.06.2025 - 16:24 Permalink
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Christian I Mi., 18.06.2025 - 21:34

Antwort auf von Martin Sitzmann

Recentemente ho letto molti articoli che descrivono come le persone che lavorano con la tecnologia e con i social media sono i primi che vietano ai loro figli di utilizzare gli smartphone! Uno di questi è Bill Gates, ma la lista era bella lunga, con nomi famosi della Silicon Valley e delle "star" dei social media. Come a dire, gli smartphone sono oppio per la plebe, per tenerli buoni e rintontiti davanti a un monitor.

Mi., 18.06.2025 - 21:34 Permalink