Digitali e tristi
Dal mare magnum dei social network, palcoscenico per riflessioni pret à porter, cronache giornaliere ma anche per deplorevoli performance di cyber-bullismo et similia, emerge un dato significativo da Oltremanica: un adolescente che si collega ai social ridurrebbe del 3% la possibilità di essere felici. L’indagine, dal titolo “Social Media Use and Children’s Wellbeing” pubblicato su Iza, l’Institute of Labor Economics, è stata condotta da quattro professori di Economia dell’università di Sheffield, nello Yorkshire, in Inghilterra, e si basa su sei indicatori: compiti, percezione di sé, famiglia, amici, scuola e vita tout court. Ad essere preso in considerazione è un campione di ragazzi inglesi dai dieci a quindici anni a cui è stato chiesto, tra il 2010 e il 2014, quanto tempo trascorresse su Bebo, MySpace (due piattaforme ormai tramontate) e Facebook. La maggior parte degli intervistati ha risposto di essere connesso ai social da una a tre ore al giorno.
Si riaffaccia quindi, anche alle nostre latitudini, una domanda tutt’altro che oziosa ovvero: l’allarme mediatico circa la pericolosità dei social media per gli internauti più giovani è giustificato? “Occorre tenere conto del fatto che gli algoritmi tendono a preferire dei post su cui l’utente è invogliato a mettere il 'like', parliamo, di fatto, di informazioni filtrate e non possiamo ignorare che certi trend siano in atto”, spiega Francesco Ricci, preside della Facoltà di Scienze e Tecnologie Informatiche all’unibz. “Un altro pericolo che noto - osserva Ricci - è la forma di assuefazione che il social network produce, stessa cosa vale per le e-mail, esiste infatti proprio una forma di soddisfazione quando processiamo una mail, la visualizziamo o la cancelliamo, è un effetto automatico che ci spinge continuamente a guardare certe informazioni perdendone di vista altre, magari più importanti”.
"Si creano delle attese nei confronti degli altri utenti che possono anche essere deluse, tutto questo può avere un influsso negativo sui ragazzi"
Riguardo ai giovani, nello specifico, navigare sui social innesca meccanismi di confronto con i coetanei, con le condivisioni e i like come moneta corrente per acquistare consenso. “Il fenomeno del like - chiosa l’esperto - è una forma di do ut des, quando mettiamo un ‘mi piace’ sotto a un post inevitabilmente ci aspettiamo di riceverne uno indietro, e quindi si creano delle attese nei confronti degli altri utenti che possono anche essere deluse, tutto questo può avere un influsso negativo sui ragazzi”. E poi c’è il fattore del cosiddetto hate speech. “Ognuno di noi mira a pubblicare informazioni e immagini che ci mettono in evidenza nei nostri aspetti positivi, ma poi capita il commento negativo, o la denigrazione dell’altro unito a fenomeni di cyberbullismo e di prevaricazione”, afferma il Professore.
Quello dei social, insomma, resta un pantheon piuttosto complesso, essenziale dovrebbe essere “lavorare sugli algoritmi per renderli più equilibrati e scartare automaticamente le notizie deleterie”, riassume Ricci. E ancora: “C’è molto da fare anche per capire meglio cosa sta succedendo e cosa accadrà in futuro riguardo questo argomento, dal momento che effettivamente l’informazione che acquisiamo è sempre più originata dalle piattaforme social, quantomeno per ora perché fra qualche anno lo scenario potrebbe cambiare visto che parliamo di dinamiche molto veloci”.
Resta il fatto, conclude Ricci, che “c’è bisogno di un’attenzione notevole nei confronti di questi strumenti a tutti i livelli, tecnologico, sociale, culturale, educativo, informativo, ma non dobbiamo, di contro, demonizzarli, io stesso comunico spesso con gli studenti attraverso Facebook, ieri una mia studentessa celebrava il compleanno, le ho fatto gli auguri e nel contempo le ho parlato del progetto che ha sottomesso per il suo esame, ecco, questo costituisce un esempio diverso in termini di comunicazione, in questo caso fra professori e studenti, senza dubbio positivo”.