Gesellschaft | Promemoria

L’8 Marzo mancato di Adelina Sejdini

Perciò lei trovava nauseanti termini adoperati con disinvoltura da giornalisti e da una parte di attivisti dei diritti umani : prostitute/ ex-prostitute/ sex workers
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L'8 Marzo mancato di Adelina Sejdini
Foto: Google image

È dagli inizi del novembre scorso che mi ero impuntata nell’idea di scrivere un pezzo per Adelina Sejdini. Mi è stato quasi impossibile riuscire a tirare fuori dalla sua storia incredibile un che di sensato. Nella mente non riuscivo ad abbozzare nessun disegno e possedevo solo stoffa. Sapevo di dover cucire i pezzi con il distacco necessario per ricavarne un vestito sobrio, ma mi risultava difficile. Ho fallito, ma ciò non mi fa sentire in colpa. Dopo ogni ricerca e presa di appunti che visualizzava la trama, venivano a galla altre novità e tutto iniziava da capo in una totale confusione. Dunque, un giorno andava a prendere il pane, raccontava per prima volta nel 2000, ad un programma televisivo di Ada D’Eusanio. L’ascoltai avvilita, io seduta sul mio divano mentre lei comunicava con il viso lungo e pulito, le labbra leggermente storte, gli occhi grandi, tristi ma ugualmente convinti, con un italiano umile e la voce calda. Aveva 17 anni, aveva detto. Oggi a me i conti non tornano.  Se era nata il 14 luglio 1974, come tutti concordano, nel 1996, l’anno del sequestro ne avrà avuto 22. Mi risulta questa, l’unica inesattezza presunta di Adelina. Temo che sia stata vittima del pensiero che non basti aver subito quello che aveva subito per guadagnare la compassione del mondo. Ed aveva ragione. Niente che sia agghiacciante oggi potrà rimanere tale domani. Comunque, una di sei figli di una famiglia povera, genitori che definiva all’antica, usciva per comprare il pane. È assai probabile che il panificio si trovasse a pochi metri di distanza da casa sua. Ogni quartiere di Durazzo ha un suo panificio. Mentre lei s’incamminava, non si sa se verso il panificio oppure, con il panetto in mano verso casa, un furgone nero le si avvicina e, nonostante le sue urla disperate e le richieste d’aiuto, da fuori braccia maschili la afferrano e la trascinano dentro.  Pare che non fosse  né sera, né tramonto, perciò presumibilmente qualche passante ci sarà stato nei dintorni. Magari qualche vicino di casa. Comunque nessuno che abbia fatto un minimo tentativo per salvarla. Nessuno. Adelina viene portata ad uno dei tanti bunker famosi lungo il mare di Durazzo. Prima di tutto questo non aveva nessun progetto di lasciare l’Albania, nessun sogno da poter essere ingannata.  Si accontentava ad accompagnare la sua sorella più grande quando questa doveva andare a fare le spese e amava nuotare. Infatti faceva parte di una squadra di nuotatori a Durazzo e frequentava la piscina, l’unica in città. Si trova tra il parco di Vollga alla sinistra e il ginnasio Giorgio Castriota alla destra. Da ragazzina tirava pietre a chi si faceva avanti con complimenti spinti. Ed era considerato spinto qualsiasi complimento rivolto ad una donna. La ragazza timida, era ancora “come la mamma mi aveva fatta” amava definirsi, quando si è trovata dentro al bunker con una decina di uomini in fila. Vi spiego com’è fatto un bunker, giacché io stessa sono dovuta entrare in uno con i miei compagni di classe quando si facevano le esercitazioni militari. Il bunker è una sorta di guscio di lumaca cementato di 4 m2. Entrare e stare dentro più di mezz’ora faceva mancare il respiro. Vi ci si addentrava a testa bassa e ti trovavi come in una tana per topi, con solo due o tre buchi in cui i soldati potessero appoggiare le canne dei fucili per prendere la mira. In questa cavità di cemento fu violentata e seviziata per ore e ore mentre implorava pietà e singhiozzava lacrimando, angosciata dalla convinzione che stesse per morire. Attorno a lei sporcizia di altri o resti di animali morti. Dopo l’eccellente domesticazione fu spostata altri dieci giorni in una residenza a lei sconosciuta. Mi chiedo se veramente nessuno abbia sentito i suoi pianti? E quale saggezza si può ricavare da una tale vicenda che puzza di sangue, urina e defecazione?

 * * *

 Si sa oggi tutto sul salto funebre di Adelina, il 6 novembre scorso, quando la sua voce alta stonava e il filo nero delle sopracciglia sembrava un taglio netto.  Ma un altro salto l’aveva fatto vent’anni or sono in cerca di salvezza. Uno slancio dal secondo piano di un appartamento a Durazzo, pochi giorni prima essere portata per sempre in Italia. Non si sa come sia riuscita ad aprire la porta del balcone, saltare fuori e buttarsi giù. Senza la minima esitazione. Pare che si sia rotta un piede o un braccio, ma lo stesso si era trascinata alla cieca verso il Commissariato di Polizia, di un quartiere di Durazzo, Shijak. Arrivata là denuncia tutti. Chiede aiuto, chiede protezione. Racconta e piange, geme e trema. Ha paura ma è anche felice. Troppo bello per essere vero. Dopodiché serve solo chiamare i suoi, che vengano a prenderla. Uno dei poliziotti fa il numero.

Ecco cosa racconta lei nell’intervista fatta durante la promozione di uno dei suoi libri, Libera dal racket della prostituzione:

 “Quando la polizia albanese chiamò i miei genitori perché mi riprendessero, loro si sono rifiutati. Li avevo disonorati, avevo detto che anche uno dei nostri parenti mi avevano fatto del male…Così, quella sera, al Commissariato, i poliziotti mi hanno insultata e violentata…”

 Da loro viene venduta a buon prezzo ad un altro protettore. Una decina di giorni dopo si era trovata  tra altre decine di disperate come lei affiancate da uomini incappucciati e poliziotti.  Aspettavano sulla riva del mare per essere imbarcate verso Brindisi, quando uno dei poliziotti si era complimentato per come loro “avrebbero fatto bei soldi in Italia senza stancarsi più di tanto”.  A Brindisi in dieci erano costrette a condividere un appartamento, in cui sembra che vi si addentrassero spesso donne con ferretti in mano che si occupavano esclusivamente di abortiLei ricorda una quattordicenne, bambina venduta da sua madre per pochi soldi.

Questa è solo una minima parte di quelle definizioni (e qui riporto i termini che Adelina trovava tanto nauseanti), adoperate con disinvoltura da giornalisti e da una parte di attivisti dei diritti umani: prostitute/ ex-prostitute/ sex workers, etichette che hanno dovuto sopportare a denti stretti.

 

Ma (…) la prostituzione non è una libera scelta. (…) – dichiarava instancabilmente Adelina, che da anni collaborava con l’associazione Resistenza Femminista contro la legalizzazione dei bordelli e delle cosiddette zone rosse:

“Sul territorio italiano nessuna donna può prostituirsi da sola anche se lo volesse. Il territorio è già gestito dalla criminalità organizzata. Ci sono quelle che si prostituiscono di nascosto per mancanza di sostegno economico, magari sono ragazze madri, ma lo fanno saltuariamente, perché i territori sono gestiti da altri. E poi ci sono quelle che lavorano negli alberghi di lusso, quelle che per varie ragioni subiscono discriminazioni, Quindi sono comunque dell’idea che dobbiamo dargli delle opportunità dignitose…”

 “I clienti stessi sono complici della nostra schiavitù. Gente di ogni tipo. Se ne fregano di te. Si sfogano e spesso usano pure la violenza. Il cliente è anche il classico padre di famiglia, della società bene. Magari ha appena lasciato i figli a scuola e passa una decina di minuti da noi. Credetemi. A nessuna di noi piace essere toccata da chi non desideriamo. Ci toccavano (che Dio mi perdoni!) uomini sporchi e ubriachi. Un inferno!” raccontava nel documentario “ Non ora” di Andrea Laquidara.

Elvira Dones è stata la prima autrice, forse l’unica con questo modus operandi, tipica della crudezza à la Quentin Tarantino, ad aver raccontato queste vicende nel suo libro “Yjet nuk vishen keshtu” (trad. it.: Le stelle non si vestono così), pubblicato da Feltrinelli con il titolo Sole bruciato". Elvira Dones ha condiviso del tempo prezioso con donne impaurite e spesso mutilate. Ha preso appunti con il cuore a pezzi sentendo quello che avevano da dire.  E non ha dovuto fantasticare più di tanto. L’inferno era là, di fronte a lei, tra chi era stata portata con l’inganno dal fidanzato, e chi venduta dal fratello, oppure da zii e zie. Storie indicibili, raccapriccianti. Chissà quante di queste donne giacciano sotto qualche discarica, in qualche periferia sperduta, humus per i nostri fiori.

Politicamente indefinibile, né di sinistra, né di destra, Adelina era sicuramente una donna coraggiosa e incasinata in centinaia di progetti, con un forte senso di solidarietà.  Due anni fa, aveva insistito a farsi aiutare da Salvini, tramite un membro della Lega di Lecce, una signora di origini albanesi. Voleva avere quello che le aspettava da anni, da molti anni. La cittadinanza italiana. Nessun riscontro a una sua lettera inviata a Napolitano e, solo un visto umanitario come riscontro a quella inviata a Mattarella. Dopo 20 anni di lotta contro la mafia albanese, centinaia di denunce e testimonianze, una chicca dorata per chi, nelle forze dell’ordine, aveva fatto una lusinghiera carriera. A giochi fatti lei non serviva più.

“Ho 42 anni – si rattristiva raccontando in una intervista rilasciata cinque anni fa a Storie italiane, (RAI UNO) – e gli anni purtroppo sono passati in fretta. I più belli della mia vita  li ho passati in strada. Quando penso ai miei sogni e al futuro, piango. Non mi ci vedo. Mi manca la famiglia. La mia vita è stata un inferno. Io vengo dall’inferno”.

Poco tempo fa, con mio stupore, ho saputo che si sono fatti vivi i famigliari. Da loro è partita una denuncia, e rimpiangono la loro cara figlia.  Le loro pagine di Facebook, d’un colpo, abbondano di poche foto di lei quasi fanciulla, postate e ri-postate continuamente. Mancano però le altre, quelle dei tempi nefasti. Che ce ne fosse almeno una, una che ritraesse lei sorridente insieme a loro! “Come è gentile lei per essere una parente: sembra un’estranea!”, diceva il grande Totò.

 

Dunque, quella donna forte e affascinante, nel novembre scorso, era diventata antipatica e schizofrenica, con quella testa pelata messa in mostra dopo la chemio. Ora non era più quella che riempiva i pomeriggi lagnosi televisivi, quella sempre pronta ad essere intervistata quando serviva. Forse lei era inutile anche ai cosiddetti “Angeli azzurri”, alle forze dell’ordine, a cui lei era servita per decenni, adottandoli come la sua famiglia. Le forze dell’ordine e Dio. Ha perso così il controllo. Sicuramente, dopo i suoi tentativi solitari finiti male, i suoi viavai dall’ospedale da Pavia a Roma, dopo varie umiliazioni e maltrattamenti, si sarà fermata afflitta, sfinita, sotto la pioggia novembrina  e si sarà chiesta: “È stato tutto inutile???”. Io spero che abbia strillato a squarciagola: “È stato tutto inutile???”

Sicuramente ha ricordato il suo entusiasmo frizzante quando manifestava coprendosi le spalle con il tricolore. Le sue battaglie, il suo perdono cristiano rivolto ai familiari che l’avevano abbandonata in quella stanza del Commissariato. È ovvio, è ovvio, che sotto quella notte piovosa, allibita da tanta sfortuna e umiliazioni, con in mano un foglio di via e i dolori della malattia e dell’anima, si sarà appoggiata al muro freddo del cavalcavia romano. E lì può darsi abbia sentito innalzarsi dentro di sé un urlo viscerale bollente, un urlo acuto come una lama, quella che le ha inflitto tutte quelle ferite al pube, all’utero, alle viscere, al cuore e ai seni menomati. E infine al cranio. D’un colpo si è spaccata.  Una volta si era buttata per salvarsi la vita. Ora si è spaccata laggiù, sul cemento. Bagnata di pioggia e, suppongo il suo viso bianco e mal truccato quasi invisibile dentro la notte. Invisibile la sua bocca, la bocca che ha detto tanto e tanti ha fatto premiare.  Auspico che l’abbia avuta chiusa mentre moriva, o che qualcuno abbia avuto l’accortezza di chiuderla. Non vorrei che le siano entrate delle formiche dentro e che le seppelliscano con lei. Diceva una volta con la sua voce briosa:

Vi dico una che vi sembrerà sciocchezza ma, lo dico lo stesso. Quando metto la legna nel fuoco, prima controllo se non ci siano le formiche. Le tolgo tutte…Non voglio che vengano bruciate…”