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Foto: Wikipedia / Vlad Lesnov
Politik | Dopo il voto

Una democrazia in crisi

Elezioni. Astensionismo. Populismo. La crisi profonda della democrazia italiana.

Alla fine è accaduto quel che tutti sapevamo sarebbe accaduto. Era scritto negli astri e a chiare lettere. L’esito elettorale è l’ultimo segno visibile di una crisi più radicale che investe le democrazie europee e in forma più grave quella italiana, oggi. La punta di un iceberg sommerso. La campagna elettorale e il recente dibattito politico sono stati ridotti ad una perenne lite condominiale, abbiamo snocciolato pronostici, sondaggi e statistiche, ci siamo diligentemente attenuti ai dettagli, perdendo di vista il quadro generale. Persino la catastrofe della guerra in corso è passata in secondo piano, offuscata dalle questioncelle tra partiti e dalle ultime dichiarazioni al veleno trasmesseci dai politici di turno e dai loro megafoni virtuali. Cerchiamo di tratteggiare il quadro generale, il triste affresco, nel quale si inserisce la “vittoria” del partito di Giorgia Meloni.

Primo. Il vero vincitore di questa tornata elettorale è stato l’astensionismo. In Italia si vota sempre di meno. Una crescente diaspora dalla partecipazione politica? Un cambio di abitudini tra gli italiani? Può essere. Ma questo tipo di mutazione comportamentale non ha soltanto ragioni sociologiche o psicologiche. È invece influenzato dal diritto, ossia, in questo caso, da una legge elettorale che  attribuisce un enorme potere alle segreterie di partito nella determinazione dei deretani che vanno fatti accomodare in Parlamento. Fino a che si chiederà all’elettore di non scegliere proprio niente, ma di certificare semplicemente quanto stabilito nelle stanze di partito, non dovremmo scandalizzarci della sempre maggiore diserzione delle urne. Questa legge, la legge Rosato del 2017, quella con la quale si votò anche la scorsa volta e che produsse in nome della beata efficienza una legislatura frammentata in tre diversi esecutivi, contribuisce a legittimare una classe politica che per interesse e per pigrizia rinunzia a modificarla. Una legge che è parte integrante la struttura costituzionale del Paese e che tuttavia estromette l’elettorato da scelte fondamentali, attribuendo potere ai capibranco dei partiti e favorendo così un’involuzione oligarchica della democrazia italiana.

Secondo. Queste elezioni si inseriscono in una pericolosa mutazione dell’assetto dei poteri pubblici. Il giurista Sabino Cassese è tra le autorevoli voci - e di certo la più limpida – a denunciare una gravissima corruzione del principio montesquieuiano della separazione dei poteri. Nell’ultima legislatura, scrive Cassese nel suo editoriale del 18 settembre sul Corriere della sera, «il Parlamento-legislatore è stato pressoché assente». Solo un quinto della produzione legislativa degli ultimi cinque anni è stata infatti di iniziativa parlamentare, mentre la metà degli atti dotati di forza di legge è composta da decreti-legge, ossia dagli atti con forza di legge che l’articolo 77 della Costituzione consente all'esecutivo «in casi straordinari di necessità e di urgenza». L’urgenza e il caso straordinario sono considerati in Italia la regola, l’eccezione la norma, la patologia fisiologica. In altre parole: l’esecutivo legifera, tradendo il principio implicito della separazione dei poteri e usurpando prerogative che spetterebbero al Parlamento. Carl Schmitt non ha mai cessato di propagare la sua infelice dottrina.

Terzo. Queste elezioni si sono svolte a seguito della riforma costituzionale che ha ridotto il numero dei parlamentari, rendendo così l’organo legislativo più facile preda di pericolose maggioranze. In nome dell’efficienza si compiono scelte improvvisate, come se questa fosse un valore in sé. Non lo è, giacché si può essere efficienti nel costruire ospedali così come nel costruire bombe che poi di regola vanno a finire pure su qualche ospedale.

E veniamo così all’ultimo tratto di questo affresco, appena abbozzato. Le elezioni che tutti noi abbiamo perso si sono svolte nel contesto internazionale troppo spesso offuscato o separato dalla campagna elettorale, come se l’Italia fosse protetta da un recinto che la divide chirurgicamente dal resto del mondo. Ci dimentichiamo che una guerra ingiusta è stata mossa dal presidente russo in offesa ad ogni principio del diritto internazionale. Anche quel presidente ha una concezione della democrazia deviata, ossia autoritaria. Anche lui pensa in fondo che il popolo debba servire esclusivamente a certificare le sue decisioni dispotiche, così come è accaduto per le farse referendarie inscenate nei territori ucraini annessi con la forza. Anche lui pensa che i «pieni poteri» siano oggi possibili solo simulando un fittizio consenso dal basso. Noi per ora non abbiamo un Putin italiano, ma nell’esecutivo che sta per comporsi abbiamo forze politiche e capocuochi che di buon grado vorrebbero assomigliare a Putin-quello vero e condurre così la travagliata storia della democrazia italiana verso nuove e pericolose forme di autocrazia, che mai avremmo voluto immaginare.