"O si vince o si muore"
Matteo Salvini torna a Bolzano da candidato Premier, e lo fa mediante una duplice apparizione: prima, verso le cinque di pomeriggio, passeggiando ancora una volta (come già fece esattamente due anni fa) tra le bancarelle del Mercatino di Piazza Walther, circonfuso da profumi di cirmolo e di essenze naturali; poi, poco dopo le sei e mezzo, con un comizio nella Sala Europa di via del Ronco, collocata nel cuore della Bolzano grigia e italiana, dove risiede anche la maggioranza dei suoi potenziali elettori. Due diverse apparizioni per dire in sostanza una sola cosa: “Tra cento giorni si vota, io sento che possiamo farcela. Ma affinché ciò avvenga davvero occorre l'impegno di tutti noi, perché stavolta o si vince o si muore. O andiamo al governo per cambiare le cose, oppure a quelli lì gli daranno non solo la cittadinanza, ma anche la casa, il lavoro e la pensione”.
La prima cosa che si nota è il cambio di colore. Un tempo era il verde, a ricordare mitologiche brughiere padane e sogni di secessione. Adesso è il blu, anzi l'azzurro, il fondale prevalente sul quale si stagliano i manifestini posati sulle seggiole (anch'esse azzurre) con la scritta “No Ius Soli”: “Perché prima di ottenere la cittadinanza serve integrarsi”. Di verde qui ci sono solo le uscite di sicurezza, presidiate dai poliziotti che sostano anche all'esterno. Intanto arriva la gente. Prima gli anziani, poi via via tutti gli altri (saranno quasi 300). I giovani del partito sono in fibrillazione. L'attivissimo Kevin Masocco sfoggia la felpa “Salvini Premier” e non sta fermo un minuto: sorride, saluta, ammicca, saltella, sembra persino più alto. Le prime due file sono riservate ai consiglieri dei vari comuni nei quali figura la Lega, e i fedelissimi, quelli riusciti a superare il deserto della dissoluzione post-bossiana (“quando la Lega non se la filava più nessuno”, rammenta il neo commissario Massimo Bessone introducendo la serata) stanno lì a provare di nuovo il gusto di farsi vedere abbracciati a qualcuno che conta. Quando Salvini entra scatta immediato l'applauso e comincia subito il rito dei selfie: giusto un aperitivo, prima dell'orgia conclusiva.
Crocifissi, carne di maiale e rispetto per le donne
Riassumere i discorsi iniziali non è difficile. Tutto è repertorio, perfettamente collaudato, al limite screziato da qualche filamento di emozione che cade su un pubblico molto silenzioso (“sembra di stare a un comizio del Pd”, ironizza il Capitano). Parte Bessone, che saluta tutti, ringrazia a più non posso, quindi stigmatizza il trattamento di lusso che ricevono i profughi di Vipiteno: “Pensate, insegnano loro a sciare, uno sport da ricchi, e qualcuno ha messo persino degli annunci per trovargli delle donne con le quali fare l'amore”. Nessuno mette mano al cellulare per eseguire un rapido fact-checking. Giuliano Vettorato, che a Laives fa parte della Giunta del sindaco Bianchi (quest'ultimo salutato con grandi abbracci da Salvini prima del comizio) rivendica i successi della propria amministrazione: “Pensiamo soprattutto a fare le cose per la soddisfazione dei cittadini”. Un esempio? “Qui da noi non abbiamo nomadi. Se arrivano, tempo due ore e già li abbiamo spediti facendoli sgomberare dai vigili urbani. I soldi preferiamo spenderli per aiutare le popolazioni terremotate del Centro Italia”. Chiude l'aitante Andrea Crippa, responsabile dei giovani, il quale batte forte sul tasto dell'identità culturale da preservare – crocifissi, carne di maiale e rispetto per le donne – ed incita il pubblico, evidentemente percepito come poco infoiato, a fare più figli “per evitare che quelli lì ci sostituiscano”. Mentre gli altri parlano, Salvini scribacchia e finge di non annoiarsi.
Ma adesso tocca a lui. L'esordio è quasi una citazione, un ritorno di fiamma sulla scena primaria del suo incontro con Bolzano: la stazione, il famigerato parco che gli ricordò Beirut e adesso – pesa come un macigno il ritrovato primato nella classifica della miglior qualità della vita – tocca approcciare usando parole appena più caute. Al posto dell'invettiva, l'aneddoto: “Oggi sono passato dalla stazione [risatine di sottofondo] e ho assistito a questa scena. C'erano tre tizi e non mi parevano venire esattamente da Bressanone [altre risatine di sottofondo, più sonore delle prime]. Mi sono avvicinato. Gli ho detto: Ragazzi, che si fa? Uno mi ha risposto: Tu che cazzo vuoi? [stavolta si ode una vera risata]. I tre aspiranti profughi stavano ballando, ve lo giuro. Ballavano. E alla fine un altro mi ha persino confidato: non è giusto che aiutino solo noi, fratello, dovrebbero aiutare anche gli italiani. ANCHE? Gli italiani sono I PRIMI che devono essere aiutati, altro che storie!” [Applauso scrosciante].
Io vorrei un paese solidale, accogliente, che promuove il rispetto di tutti
In realtà ogni stoccata di questo tipo è smorzata subito dopo da considerazioni che fanno presagire colossali ambizioni. “Non ce l'ho mica con quei ragazzi lì”, spiega quasi bonario. “Io vorrei un paese solidale, accogliente, che promuove il rispetto di tutti. Ma il problema è che poi c'è chi specula su queste persone, che ha bisogno di farle entrare per renderle schiave. E allora non va più bene, allora bisogna dire no, dobbiamo fermare questa invasione”. Lo schema si riproduce per ogni argomento: prima l'attacco, poi una sfumatura più sobria che suggerisce un profilo da statista tranquillizzante. Salvini parla di tutto – dell'informazione, delle banche, del lavoro, della sicurezza – centellinando le battute (“Adesso hanno scoperto il pericolo fascista. L'altra sera sentivo la televisione, parlavano di un'onda nera e mi sono chiesto: uehh, ma è mica affondata una petroliera?”) e mirando ai bersagli polemici più grossi: “Se andiamo al governo la prima cosa che faremo è cestinare la legge Fornero. È inconcepibile che la gente onesta, che ha solo lavorato, vada in pensione a settant'anni: noi dobbiamo lavorare per vivere, non vivere per lavorare!”. Non mancano poi i riferimenti all'autonomia – citata per esprimere il desiderio di sollevare il Pd dal suo storico abbraccio con la Svp: “Perché noi siamo credibili come forza autonomistica, mentre il Pd è una forza centralistica” – e al nodo dell'alleanza con Berlusconi, che nomina alzando gli occhi al cielo, e al cospetto del quale la voce s'ingrossa: “Con lui bisognerà stabilire dei patti molto chiari, non voglio certo ritrovarmi nelle situazioni che conosciamo. Imprescindibile è che non ci sia alle viste nessun patto con la sinistra. Non saremo mai alleati della sinistra. Fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio”.
Si torna così all'inizio, all'azzurreggiare di questa passione nazionale che rappresenta anche una scommessa. È la spaccata da compiere tra la vecchia vocazione micropatriottica – intonata al mantra delle specificità territoriali minacciate dalla globalizzazione – e l'opzione sovranista più larga, tanto da fargli affermare che l'Italia non dev'essere seconda a nessuno, “né alla Francia né alla Germania”. Una specie di ex brutto anatroccolo padano da trasformare nel cigno che lo farà volare da Busto Arsizio (sapesse di latino qui intonerebbe: “Eoum Baptista latus: tenet Aliger ipse Occiduum: medium Virgo beata forum”) a Catania (“io vado dove ci sono le ingiustizie”) per ammonire, correggere, redimere. Al limite anche in picchiata contro Bruxelles, in effetti uno dei pochi luoghi nei quali non possano testimoniare la sua ubiquità. Saranno 100 giorni in 100 (altre) città. La campagna elettorale è lanciata dai video (“Giovedì sarò dalla Gruber, le porterò i vostri saluti”), dalle piazze, dai capannoni (“qualcuno mi ha detto che sono più magro di come sembro in televisione”), e ovviamente dai social, dove si ha l'occasione di postare l'immagine prodotta da chi lo vorrebbe prigioniero delle Brigate Rosse (“non ci lasceremo intimidire”) e la fila dei fans, che non smettono di accalcarsi per sussurrargli “sei unico”. E lui mai esausto, mai titubante, perché “stavolta o si vince o si muore”.