Phnom Penh
Phnom Penh, capitale e cuore pulsante della Cambogia, con una popolazione di 2 milioni di abitanti è la città più vasta e popolosa del Paese. Una volta conosciuta come la “Perla dell’Asia”, rappresenta il perfetto esempio di città asiatica che si trova tra la tradizione e la modernità: locali alla moda, piazze spaziose e parchi dove la gente si trova a a passeggiare o fare sport.
La città sorge sulle sponde del fiume Mekong ed è rinomata per l’architettura che vede il tradizionale stile Khmer mescolarsi con le influenze lasciate dall’architettura coloniale francese.
Il modo per conoscere al meglio la città e le abitudine dei suoi abitanti, gentili e sorridenti, è quello di passeggiare tra le sue strade attraverso banchetti di venditori di frutta, di schede telefoniche, di chi ripara scarpe, moto, biciclette e di sedersi in uno dei tanti tavolini sui marciapiedi dei bar locali.
Viaggiare in Cambogia però significa anche confrontarsi con una delle pagine più buie della storia dell’uomo: il genocidio che si è consumato sotto il regime di Pol Pot.
Phnom Penh infatti, come tutta la Cambogia, porta con sé le ferite aperte negli anni oscuri dei Khmer Rossi. In qualche modo e con grande forza, il Paese è riuscito a voltare pagina e andare avanti, custodendo il ricordo della memoria.
Dal 1975 al 1979, il regime dei Khmer Rossi di Pol Pot prese il potere e massacrò da 1,5 a 3 milioni di Cambogiani, un quarto della popolazione totale. Per le proporzioni del fenomeno e l'impatto sulla popolazione complessiva, il genocidio in questione può essere considerato come un caso unico e senza precedenti nella storia dell’umanità. Il piano dei Khmer Rossi era quello di trasformare il Paese in una Repubblica socialista agraria e per raggiungere tale obiettivo era necessario sterminare non solo gli oppositori politici ma anche tutti coloro che, tramite il ricordo di “com’era una volta”, avrebbero potuto rappresentare una minaccia per il regime.
Quando i Khmer Rossi presero il controllo di Phnom Pheng, tutti gli abitanti furono costretti ad abbandonare la città. Gli venne raccontato che in quei giorni, vi era l’imminente pericolo che cadessero le bombe lanciate dagli americani. Gli aguzzini dissero loro che avrebbero potuto tornare dopo tre giorni e invece furono trasferiti nei campi di lavoro nelle campagne, dove avvenne una gran quantità di morti per esecuzioni di massa, lavori forzati, abusi fisici, malnutrizione e malattie.
Nella capitale i Khmer Rossi convertirono il liceo Ponea Yat di Phnom Penh in una prigione che ribattezzarono “Ufficio di sicurezza S-21” dove venivano svolte esecuzioni e torture atroci. Gli edifici del liceo furono racchiusi all'interno di un recinto di filo spinato elettrificato, le classi trasformate in minuscole celle e camere della tortura e tutte le finestre furono sbarrate con assi di ferro e filo spinato per evitare fughe di prigionieri. Di tutti i prigionieri incarcerati, solo sette sopravvissero, in quanto ritenuti utili alla causa del Partito.
A Natale del 1978 i vietnamiti invasero la Cambogia, nel 1979 conquistarono Phnom Penh e cacciarono Pol Pot e i suoi seguaci nella foresta al confine con la Tailandia. Phnom Penh fu ritrasformata in una città popolata. Nel 1991, con la definitiva ritirata delle truppe vietnamite, Phnom Penh ridiventò la capitale dell'attuale Cambogia.
Nel 2009 il carcere, che solo recentemente si è scoperto essere la punta dell'iceberg di un vasto sistema di prigioni, è stato inserito dall'UNESCO nell'Elenco delle Memorie del mondo.