La tenerezza, ma solo quella
- Sai cosa dice Hans Magnus Enzensberger?
- Eee…
- Sono d’accordo con lui.
Eccola una delle preghiere laiche dei fondamentalisti morettiani. La scena è quella di Caro Diario, il dialogo quello fra Nanni (Nanni Moretti) e Gerardo (Renato Carpentieri) ritiratosi a Lipari, sulle Isole Eolie, refrattario al mezzo televisivo per poi scoprirsi teledipendente irriducibile (Karl Popper, hai torto marcio). Inevitabile innamorarsi di un personaggio così. Carpentieri approda quindi - almeno per chi scrive - con un inossidabile magnetismo primigenio a qualsiasi film successivo.
Non fa eccezione l’ultimo lavoro di Gianni Amelio, La tenerezza, adattamento del romanzo La tentazione di essere felici di Lorenzo Marone, che racconta di un avvocato in pensione, Lorenzo, autorecluso (anche qui) e un po’ burbero, con due figli (Giovanna Mezzogiorno e un insipido Arturo Muselli) che, per sua stessa ammissione, dice di non amare più e un nipotino che “sottrae” da scuola durante le ore di lezione, all’insaputa della madre, per educarlo - con scarso successo - a modo suo. Un giorno, a scalfire la sua imperturbabile solitudine, arrivano nuovi vicini, Fabio (Elio Germano), ingegnere triestino, la moglie Michela (Micaela Ramazzotti) e i due figlioletti. Poi un evento orribile, che non riveleremo per questione di spoiler, affonda gli equilibri già precari. Sullo sfondo una Napoli borghese e decadente per empatia con i suoi personaggi ritratta dall’eccellente fotografia di Luca Bigazzi.
Ola per Renato Carpentieri, in stato di grazia, metodo Stanislavskij all’ennesima potenza, che troneggia offuscando i comprimari, pedanti nella loro autoreferenzialità. Germano con la sua interpretazione troppo carica (un po’ meno, Elio), Ramazzotti che nuota a grandi bracciate nella sua comfort zone (svampito is the new basito) e Mezzogiorno con la sua recitazione tormentata, marchio di fabbrica e garanzia di qualità (ma la vie en rose, ogni tanto?). Nota di merito per Maria Nazional(e) popolare che fa il suo. Respect. La regia, che si appoggia sui controcampi, parla di rimpianti, rimorsi e inquietudini più di quanto faccia il racconto, che si tiene a distanza troppo ravvicinata rispetto alle svolte patetiche, lesinando così sull’autenticità, usando la scorciatoia degli spiegoni, con punte di stucchevole saggezza che fanno da contraltare a scene madri sotto la pioggia, ché non compiacere il grande pubblico sarebbe un peccato. E alla fine, per farla breve, come cantava il poeta “non resta che qualche svogliata carezza e un po' di tenerezza”. Abbiamo capito l’intento, ma ci saremmo arrivati da soli.