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Il vino e l’arte di resistere

Patrick Uccelli, vignaiolo naturale e agricoltore, sui contraccolpi della crisi Covid, la diversità come opportunità, e il talento di non prendersi troppo sul serio.
Patrick Uccelli
Foto: Patrick Uccelli

Resilienza, olio di gomito e quel tocco di ottimismo che non guasta. Con queste munizioni Patrick Uccelli, vignaiolo naturale e agricoltore con il pallino del metodo biodinamico, sta attraversando la Fase 2 dell’emergenza coronavirus. “Basta farsi trovare pronti, e noi lo siamo” dice schiettamente il 46enne bolzanino da tempo trapiantato a Salorno, nel comune più a sud dell’Alto Adige, dove lo aspettavano i vigneti di famiglia.
Insieme alla moglie Karoline Terleth ha messo in piedi la Tenuta Dornach, sette ettari di vigne (difese con rame e zolfo) con varietà classiche come il Pinot nero, il Pinot bianco e il Gewürztraminer e con varietà resistenti (i PIWI) fra cui il Solaris, il Bronner e il Regent, ottenuti da incroci tra specie. Circa un terzo dell’uva coltivata viene vinificata in azienda, il resto venduto ad altre cantine. Pecore, capre, mucche, vitelli, maiali e asini contribuiscono al sostentamento famigliare insieme alla coltivazione di mais, patate e ortaggi. Polifonia come stile di vita. E una declinazione del vino che corrisponde anche a una certa idea di mondo.
Segno distintivo le etichette delle bottiglie di vino prodotte da Patrick: quelle con un punto colorato indicano i vini da sete, quelle con le spennellate di acquerello sono i vini dalle varietà resistenti e quelle con un estratto di una cartina catastale storica sono i vini da invecchiamento. In più sulle bottiglie compaiono dei numeri che aumentano progressivamente ogni anno (nel 2020 si arriverà a 16 in tutto) a sottolineare che “il prodotto agricolo è unico e irripetibile”.

 

salto.bz: Partiamo dall’inizio, o meglio da metà: dopo un paio di tentativi accademici, prima con la facoltà di medicina e dopo con quella di filosofia, rimasti incompiuti, ha conseguito le lauree in viticoltura ed enologia. Insomma alla fine ha “ceduto” al richiamo del vino?

Patrick Uccelli: Non so dire se ci sia stata una consapevolezza precisa dietro quelle scelte. Credo però che abbiamo tutti una “origine rurale”, che può esprimersi o meno, anche a seconda degli ambienti in cui siamo immersi che possono favorire o meno lo sviluppo di quell’attitudine. Confesso che durante la mia spensierata gioventù a Bolzano non pensavo che avrei intrapreso la strada del viticoltore. Il vino allora era solo un elemento “da compagnia”, una bottiglia da bere con gli amici, una chitarra e un prato, quello del Talvera. Poi il vino è diventato materia di studio, di approfondimento e ho capito che il cerchio si poteva chiudere perché i vigneti ce li avevamo già in famiglia. Possiamo metterla così: il mio hobby è diventato il mio lavoro e il mio lavoro è il mio hobby.

Stiamo parlando pur sempre di un bicchiere di vino, è bene non prendersi mai troppo sul serio

E cosa racconta di lei il suo vino?

Sono convinto che il vino racchiuda un valore culturale molto elevato, forse è l’unico prodotto agricolo, in questa forma, in grado di veicolare nel tempo informazioni relative a un luogo e a un’annata. Siamo sommersi da bisogni effimeri mentre il vino è fermo come un monolite, inattaccabile da centinaia di anni. Questa caratteristica è un suo valore intrinseco, è l’identità del prodotto vino.
Spostando il ragionamento sul piano personale trovo che nel mio vino risalti soprattutto il mio essere poliedrico. Ho molte etichette nonostante abbia poca terra, utilizzo molteplici tecniche per ottenere vini estremamente diversificati fra di loro, perché mi piacciono gli esercizi di stile. Riuscire a riflettere le varie sfaccettature del mio carattere, il lato più testardo, quello più tenace, quello più dolce o quello più fermo attraverso un prodotto agricolo mi fa sentire in pace con me stesso, i vini diventano raffigurazioni di vari momenti e situazioni personali. Detto questo ricordiamoci comunque una cosa.

Ossia?

Stiamo parlando pur sempre di un bicchiere di vino, è bene non prendersi mai troppo sul serio.

Chissà che ne direbbero i suoi colleghi…

Quando mi confronto con alcuni di loro in effetti mi sento spesso un pesce fuor d’acqua. Non faccio questo mestiere meglio di altri, semplicemente intendo il vino in modo diverso.

 

 

Come tanti altri voi viticoltori vi siete trovati a condividere una condizione comune in una situazione eccezionale. Durante il lockdown fare rete è stato insolitamente più facile?

Con la campagna “Lasciati sorprendere” (dal 4 al 29 maggio scorso si potevano ordinare cartoni di vino composti ognuno da 6 bottiglie di altrettanti produttori altoatesini, Cantina Alois Warasin, Tenuta Dornach, Tenuta Pitzner, Tenuta Reyter, Tenuta Hans Rottensteiner, Tenuta Schmid Oberrautner, ndr), abbiamo segnato un’inizio. Quando mi hanno proposto di partecipare a questa iniziativa, nata dall’emergenza del momento, mi sono subito accodato. Abbiamo avuto un bel riscontro, alcune persone sono anche tornate ad acquistare i nostri prodotti e questa ipotesi di fidelizzazione mi ha molto rincuorato. L’auspicio ora è che il networking si espanda e che ci siano sempre di più delle strutture orizzontali piuttosto che verticali. Colleghi e non concorrenti, amici e non nemici. Nella mia realtà, almeno, io mi muovo così.

Ho una sensazione positiva quando vado in vigna questi giorni, la vedo in equilibrio, bella. Il 2020 non sarà solo un anno “funesto”

Qualche segnale è già arrivato?

Già una decina di giorni fa io e altri 5 vignaioli altoatesini, alcuni dei quali anche molto giovani, ci siamo incontrati per mettere a punto un’idea agricola ed enologica differente, meno “mainstream”, per così dire, da quella che solitamente si propone in Alto Adige. Stiamo pensando, anche insieme a un circuito di ristoratori, a un percorso alternativo, che però, beninteso, ha la stessa validità di tutti gli altri già esistenti. Vedremo cosa ne uscirà.

E il vino da questo difficile periodo, invece, come ne esce?

Da un certo punto di vista bene, io credo che un po’ di silenzio abbia fatto bene a tutti. In azienda ci siamo potuti confrontare, con molta più calma e meno carico burocratico del solito (visto che era tutto fermo), anche nell’impostare l’annata che, io credo, sarà buona. Ho una sensazione positiva quando vado in vigna questi giorni, la vedo in equilibrio, bella. Il 2020 non sarà solo un anno “funesto”.

Funesto quanto?

La crisi non l’abbiamo sentita tutti allo stesso modo. Quando bar, ristoranti, alberghi sono stati chiusi una parte importante del nostro lavoro è stata congelata. Già è difficile che il privato vada direttamente in azienda a comprare il vino, figurarsi in quelle molto giovani come la mia. L’altoatesino in generale pratica poco il “turismo del vino”, perlomeno nel suo territorio forse perché molto florido dal punto di vista enologico, ma anche perché spesso ci si dimentica della realtà circostante.

Con il via libera agli spostamenti interregionali, il 3 giugno, sono arrivate anche le prime prenotazioni?

Abbiamo già avuto delle richieste per visitare la cantina da parte di turisti che verranno in vacanza in Alto Adige in agosto. Si riparte certamente con altri ritmi, con tutte le cautele del caso, sono tutti ancora un po’ impauriti. Noi ci facciamo comunque trovare pronti, del resto l’indole dell’agricoltore è molto resiliente, abituato com’è alle condizioni che la natura gli impone, grandinate, geli primaverili e via dicendo.

 

Vivremo la “wine experience” più in vigna, dove è più semplice mantenere gli spazi per il distanziamento, che in cantina?

Dipende. Sa, c’è chi è curioso di sentire il profumo della cantina, e chi vuole godere più del territorio. Noi abbiamo, o almeno dovremmo avere, la responsabilità di custodire il paesaggio rurale di cui tutti fruiscono.

L’altoatesino in generale pratica poco il “turismo del vino”, perlomeno nel suo territorio forse perché molto florido dal punto di vista enologico, ma anche perché spesso ci si dimentica della realtà circostante

A proposito di Salorno lei parla di confine come di opportunità, una consapevolezza che va ridestata con lucidità, specie in quest’epoca.

Le zone di confine non rappresentano una netta separazione del nero dal bianco ma contemplano tutta una serie di sfumature di colori, di possibilità, di forme di contaminazione e di ispirazione. È lo spazio da cui ci si affaccia per vedere cosa c’è oltre. Diversamente ci fermeremmo solo a una percezione della realtà unidimensionale. Con una mamma di madrelingua tedesca e un papà di madrelingua italiana sono stato abituato sin da piccolo ad avere un certo tipo di atteggiamento, ho sempre vissuto queste “non divisioni”. Nei miei anni passati in Austria e Germania ero l’altoatesino ma anche l’italiano, quando sono andato a vivere in Sicilia e poi in Puglia ero il tedesco, ho sempre inteso la diversità come fonte di arricchimento e di sviluppo interiore. Mai come limite, ogni volta come opportunità.

 

Nell’analizzare il momento storico che stiamo vivendo il filosofo Galimberti ha detto: “Conosciamo due modalità dell’esistenza: lavorare e distrarci. Fuori dal quel cerchio, è il nulla”. Condivide?

È stata una fase alienante per tutti. Personalmente la prima cosa che ho fatto è stata disattivare per un po’ i miei account di Facebook e Instagram, ho cercato di isolarmi dal flusso incessante di informazioni, spesso superflue, che viaggiano sui social, e di non farmi colpire in pieno dalle cosiddette armi di distrazione di massa. Estraniati e senza lavoro siamo rimasti senza la terra sotto ai piedi, come sospesi, bombardati da conferenze stampa quotidiane in cui si snocciolavano numeri su numeri, dalle opinioni di presunti tuttologi in un contesto di buia confusione. Ecco, dal punto di vista della comunicazione, che è l’unico campo in cui mi permetto di esprimere un giudizio, la situazione è stata gestita malamente.

Le zone di confine non rappresentano una netta separazione del nero dal bianco ma contemplano tutta una serie di sfumature di colori, di possibilità, di forme di contaminazione e di ispirazione. È lo spazio da cui ci si affaccia per vedere cosa c’è oltre

Non le sono piaciute nemmeno alcune decisioni politiche sul piano locale, in verità. In particolare in merito alla movida bolzanina in piazza Erbe, argomento sul quale era intervenuto via Facebook chiedendo un maggiore coinvolgimento dei gestori dei locali.

Coronavirus a parte è da anni che si sente parlare di questo tema, non ho il rimedio in tasca ma certo andare avanti per divieti non sembra essere la via più indicata. La vita serale a Bolzano è molto centralizzata, e se continuerà ad esserlo allora occorre pensare a soluzioni a medio-lungo termine, più strutturate. Anche noi quando abbiamo un problema in famiglia o in azienda ci riuniamo a attorno a un tavolo e partiamo dalla prima cosa che ci accomuna, altrimenti non si va da nessuna parte. Così dovrebbe essere anche sul piano istituzionale, o fra dieci anni saremo ancora qui a parlare della questione piazza Erbe. Assurdo, no?