Kultur | Mostra "Giotto. L'Italia", a Palazzo reale, Milano, sino al 10 gennaio 2016

Giotto a Milano. Un po' di luce sul mistero

Una serie di sontuosi polittici di provenienza italiana ci aiutano a ricostruire la vita e la carriera di Giotto, a Palazzo reale, Milano, sino al 10 gennaio 2016
Hinweis: Dieser Artikel ist ein Beitrag der Community und spiegelt nicht notwendigerweise die Meinung der SALTO-Redaktion wider.

 

Mostra “Giotto. L’Italia” a Palazzo Reale, Milano, sino al 10 gennaio 2016

Quando il celebre critico d’arte americano Berenson scrisse che Giotto per lui restava un mistero, non aveva tutti i torti. Su Giotto, sulla sua bottega, sulla sua vita personale, persino sul suo nome sappiamo poche cose, e non tutte certe. Sappiamo ad esempio che nacque nel Mugello, vicino a Firenze, nell’anno 1266 o 1267, che il suo nome in origine doveva essere probabilmente Angiolotto o Ambrogiotto, che fu a Roma prima ancora che ad Assisi, e che pertanto si confrontò con opere già modernissime per il tempo come la scultura di Arnolfo di Cambio nella chiesa romana di santa Maria Maggiore; a tal proposito, la sua presenza nella basilica superiore assisiate è stata più volte messa in discussione, a favore di altri nomi che vanno dallo stesso Arnolfo a Pietro Cavallini, altro artista romano capacissimo nel raffigurare figure umane lungo piani orizzontali, con panneggi di ricercata volumetria. Sappiamo inoltre che Giotto ebbe numerosi figli, che per mantenere la famiglia e garantire una dote adeguata per le figlie fu costretto a lavorare molto, a spostarsi spesso lasciando la sua Firenze, impiegando di volta in volta collaboratori che poteva trovare sul luogo, come accadde quasi certamente a Padova e a Bologna, a Rimini e a Napoli. Sappiamo che divenne il primo grande pittore con  bottega e numerosi allievi riconosciuto nell’Italia del tempo da intellettuali del calibro di Dante, Boccaccio, e poi Ghiberti, Cennini; sappiano inoltre che divenne forse il primo artista di corte della storia, entrando a servizio da Roberto d’Angiò, a Napoli, nel 1332, per poi venir invitato da papa Benedetto XII, nel 1334, ad Avignone (ma è quasi certo che non ci sia mai andato). Sappiamo infine che morì nel 1337 a Firenze, sepolto in Santa Reparata, mentre  in piazza del Duomo erano cominciati i lavori di costruzione del campanile di Santa Maria del Fiore, su suo progetto.

Insomma, pur disponendo di alcune date e di un’ossatura cronologica, non sappiamo ancora oggi spiegarci come questo pittore fiorentino sia riuscito nell’arco di 40 anni di attività a portare a compimento così numerose opere, ad avere tante prestigiose committenze e ad attuare una rivoluzione nel campo delle arti figurative sotto la cui egida artisti più tardi, come Michelangelo, si posero a testimonianza della sua grandezza. Giotto insomma è stato un grande, ma come lo è diventato? È davvero tutta farina del suo sacco? E qui il “sacco” comprende opere quali polittici, crocefissi, cicli di affreschi, mosaici, progetti architettonici, tutte distribuite tra centri di assoluto rilievo per il Trecento italiano: Padova, Assisi, Bologna, Rimini, Roma, Firenze, Napoli. In quel secolo, in tutta Europa si distingueva a malapena un pittore di professione da un artigiano, le botteghe lavoravano frequentemente per committenze di ordine pubblico, in prevalenza chiese e ordini religiosi.  Ancora oggi, se si tratta di arte del Trecento, siamo costretti spesso e volentieri a riferirci agli anonimi realizzatori di splendidi crocefissi lignei o di sontuose pale d’altare con appellativi del tipo: Maestro dei crocefissi bolognese, Anonimo scultore di scuola senese, e via dicendo.

Ebbene, tutt’a un tratto, arriva questo sconosciuto ventenne allievo non si sa di quale bottega fiorentina – ormai è risaputo che quello di Giotto allievo di Cimabue è un falso mito di derivazione dantesca – e sbaraglia la concorrenza per ricevere allogagioni da banchieri veneti, ricche corporazioni cittadine, principi di corte, papi. È impossibile dunque non chiedersi in cosa consistesse l’originalità così preziosa e contesa della sua maestranza, o quantomeno del suo modo di dirigere i lavori in bottega.

Un’occasione imperdibile per rispondere a quesiti come questo, o a gettar luce sul “mistero Giotto”, viene dalla mostra ospitata in questi giorni a Milano, a Palazzo Reale, ed emblematicamente riassunta sotto il titolo di Giotto. L’Italia. Ci vengono presentati per la prima volta,  in modo cronologico e completo, i polittici d’altare che egli realizzò per le chiese di città italiane dove fu operativo fin da giovane, a cominciare da Firenze sul finire degli anni ’80 del XIII secolo. Si comincia dunque con un frammento di tavola raffigurante una Madonna con Bambino, datata 1285, di cui purtroppo non resta che la figura femminile, ritratta a mezzo busto, con occhi grandi e intensi, secondo il gusto ancora diffuso delle icone bizantine, e un braccio teso verso il volto della Madre di un Gesù bambino ormai cancellato dal tempo. La sensazione di fronte a dipinti come questo, è che la mano di Giotto sia ancora piuttosto grezza, che non sia ancora capace di attuare quella riforma che più tardi gli verrà riconosciuta dal Ghiberti, quando scrive che egli seppe tradurre l’arte greca (ovvero bizantina) in latino. Già, in tavole come questa, o quella di poco successiva sempre in mostra a Milano e intitolata Madonna con Bambino e due angeli (1295?), si vede come il maestro consideri ancora le figure secondo schemi di derivazione gotica, attento com’è a esaltare i drappeggi sullo sfondo, ad arricchire il supporto stesso con verniciature d’oro o a sottolineare particolari come gli occhi e i gesti dei singoli personaggi: lo sguardo fisso sullo spettatore della Madonna, la mano alzata nel segno benedicente di un Cristo bambino già pantocratore. E in effetti non si deve dimenticare che con tavole simili, la committenza intendeva anzitutto soddisfare il bisogno di oggetti di tipo devozionale, secondo un concetto di immagine istituito con le parole di Gregorio Magno che nel VI secolo d.C. voleva che le imagines (o icone) assicurassero concentrazione sulla devozione e la preghiera di chi le osservava: da esse non si doveva trarre nessun insegnamento, né tanto meno una storia; di qui l’esigenza di ridurre al minimo gli aspetti iconografici, di insistere sul carattere ripetitivo e proto-tipico della raffigurazione (Cristo e la Vergine posti al centro della tavola, ritratti frontalmente, con lo sguardo rivolto direttamente all’osservatore; i colori delle vesti e persino i gesti convenzionalmente stabiliti).

Ma già in queste prime prove di Giotto è possibile intravedere alcune “devianze” dagli schemi così rigidi imposti dall’arte delle icone, talune caratteristiche che impareremo più tardi a riconoscere nelle opere mature. Penso allora ai panneggi di questa Madonna seduta in trono, così ben piazzata nella sua posa statuaria, inamovibile eppure già ravvivata da una tecnica come quella della lumeggiatura, che consiste nello schiarire alcune parti di campitura più scura, come quella della veste e del manto della Vergine, per ottenere un effetto visivo più dinamico e realistico per il tessuto che ricopre il corpo umano. Queste son già piccole rivoluzioni, di orientamento e di stile completamente diversi dall’arte di derivazione bizantina. Ma poi, come non vedere che gli occhi della Madonna, dalla tavola dell’85 a quella del ’95, si fanno più piccini ed anche più espressivi, con quel velo di ombreggiatura che suggerisce intorno al volto la presenza della luce. Insomma qualcosa c’è, si presente e fa dimenticare imprecisioni come quelle dei piedini “di-velti” del Bambino o delle dita troppo affusolate, quasi di ragno, della mano destra della Vergine.

Ben diversa è la tecnica raggiunta da Giotto nel Polittico Badia, affiancato nella mostra da alcuni frammenti di affresco riportati direttamente dalle pareti della chiesa della Badia Fiesolana, a Firenze. Qui siamo già attorno al 1300, e si possono vedere affinità di stile con gli affreschi della cappella di San Nicola della Basilica inferiore di Assisi. Le figure dei santi Nicola, Giovanni Evangelista, Pietro e Benedetto, compresa la Vergine, sono solide e ritratte leggermente di scarto, per indicare profondità spaziale. Il Bambino in grembo è vivace, si agita aggrappandosi al collo della Madre mentre la tavolozza di colore si è considerevolmente ampliata, accogliendo sullo sfondo dorato sfumature di verde, giallo e rosso.

La tecnica di porre le figure sedute in trono, donando profondità alla scena, si affina ancora di più in una pala del 1303-05, dove possiamo ammirare un Dio Padre biancovestito perfettamente a suo agio in un seggio regale di fattura gotica, con ali laterali disegnate di scorcio grazie a una sagace padronanza della prospettiva. La barba dorata del Padreterno si è fatta vaporosa e soffice come un vello, il contorno del volto si è rarefatto in un sapiente uso del chiaroscuro: spicca una linea verticale di biacca pura al centro del viso, lungo la linea del naso, un punto di luce definito e sbalzato dalle due curve brune che segnano le occhiaie del Padreterno. Potremmo tranquillamente immaginare un Dio Padre al termine dell’immane fatica affrontata durante la Creazione, seduto spossato sul suo trono e catturato in un momento di riposo, prima che qualsiasi stilista fosse intervenuto a cancellarne i segni della stanchezza. La tavola in questione proviene dalla Cappella degli Scrovegni a Padova, dove Giotto realizzò per le pareti laterali della navata il ben più famoso ciclo di Storie dedicate a Gioacchino e Anna, la Vergine e la vita di Gesù, con l’impressionante Giudizio Universale in controfacciata.

Abbandonando la sala ben illuminata del Polittico Badia, si entra in una serie di salette più basse e scure, dove campeggiano in bella mostra, una dopo l’altra, le opere d’altare forse più celebri del Trecento, insieme a quelle dei senesi Simone Martini e Duccio da Boninsegna. Si tratta dei quattro polittici realizzati da Giotto nell’arco di circa vent’anni, tra il 1310, a conclusione dei lavori a Padova presso la Cappella degli Scrovegni, e il 1334, quando cominciarono i lavori per il campanile del Duomo di Firenze.

S’incontra così il Polittico di Santa Reparata (oggi Santa Maria del Fiore, a Firenze), dipinto su entrambe i lati, con Madonna, Bambino e Santi sul recto e scena dell’Annunciazione e altri santi, tra cui il Battista e Santa Maria egiziaca sul verso. Il carattere descrittivo dell’arte giottesca si fa più evidente, grazie a dettagli deliziosi come le chiome lunghissime della santa egiziana, il gesto plastico e riconoscibile del noli me tangere, eseguito dalla Vergine innanzi all’arcangelo, già visto con la Resurrezione alla cappella dell’Arena padovana, o come quelle bianche rocce calcaree, anch’esse già viste, e disposte a nicchia per incorniciare ancora meglio le figure dei santi. Nulla da dire, Giotto ormai dispone di uno strumentario che lo rende riconoscibilissimo, ovunque lavori e qualunque sia la maestranza cui si affida per portare a termine i suoi lavori. Un ultimo consiglio, prima di passare alle altre pale: fate bene attenzioni alle teste e agli occhi delle singole figure umane, sempre così ben distinte l’una dall’altra, sempre così volutamente caratterizzate.

C’è chi – come il Brandi – ha parlato per Giotto di un “tema dello sguardo”, vale a dire della capacità di trasmettere, in virtù del modellato in chiaroscuro dei volti e dell’espressività degli occhi da lui disegnati, una gamma articolata e precisa di emozioni, non più ascrivibile al linguaggio codificato della pittura del secolo precedente, il Duecento; e c’è chi invece – come il Longhi – ha messo in evidenza l’attenzione posta dal maestro fiorentino per gli aspetti spaziali, di illusione ottica, di profondità e realismo dello spazio rappresentati, in relazione soprattutto agli ambienti che ospitavano i suoi affreschi come nella cappella degli Scrovegni a Padova o nella Chiesa di santa Croce a Firenze.

Entrambe le osservazioni sono vere: è giusto quindi ricordare un Giotto “spazioso” e “caratterista”, un primitivo della pittura occidentale capace di toccare tutti quegli aspetti del dipingere, stilistici, figurativi e iconografici, che attraverseranno senza soluzione di continuità l’arte dalla sua morte sino alle opere di Carrà e De Chirico, per citare solo alcuni dei grandi delle avanguardie storiche che nel Novecento italiano guarderanno a lui come a un iniziatore dell’arte moderna.

Vecchi schemi decorativi coesistono ancora nel Giotto più maturo (e moderno) con novità pittoriche assolute: si prenda allora a esempio il Polittico Stefaneschi (dalla Basilica di San Pietro), con ancone cuspidate e fondo verniciato a oro, troni di fattezza gotica, archi a sesto acuto, eppure già così inattuale per quei pavimenti e quei gradini, in perfetta prospettiva alla base dei seggi di Cristo e Pietro su ambo i lati, o l’uso del paesaggio sullo sfondo di scene martiriche, rispettivamente urbano per Pietro, sulla tavola di sinistra, e rurale per Paolo, su quella di destra. Come siamo lontani da pale quali quelle di Duccio, Simone o Pisanello. Geometria, architettura, paesaggio entrano di diritto, con Giotto, a far parte del repertorio figurativo sacro, rivoluzionando il concetto di immagine per il coro degli altari.

Lo stesso si dica per l’opera successiva in mostra, la penultima: il celebre Polittico Baroncelli –  monumentale polittico a cinque scomparti, con al centro l’Incoronazione della Vergine e Gloria di angeli e santi nei pannelli laterali, completo di predella e firma del maestro: “Opus magistri Jocti”. Ancora splendidamente conservato, anche grazie all’incorniciatura realizzata dalla bottega del Ghirlandaio nel XIV secolo, il polittico ci mostra un centinaio circa di “comprimari”, tra angeli musicanti e teste aureolate di santi, con una tecnica assolutamente inedita per il suo tempo: in un’unica grande scena, nonostante la divisione in pannelli, le decine di capi aureolati sono riprodotti senza uno schema lineare ripetitivo. I nimbi, mano a mano che si sale con lo sguardo, coprono parzialmente il volto di quelli che seguono nella schiera superiore, talvolta lasciando in vista solo una porzione ristretta del soggetto; tutti i visi sono caratterizzati altresì in modo differente, per aiutare chi li osservava a riconoscerne l’identità; alcuni di essi, addirittura, volgono lo sguardo altrove rispetto alla scena principale dell’Incoronazione nella tavola al centro. Perché una scelta tanto ardita, perché tanta dovizia di dettagli? Se si pensa all’ubicazione originaria del polittico, la cappella Baroncelli in Santa Croce a Firenze, verrebbe da dire che Giotto mirava a un’opera che fungesse da specchio per gli astanti durante la celebrazione delle funzioni in chiesa: una sorta di pannello in cui i devoti potevano specchiarsi e riconoscersi, ovvio non coi vestiti alla moda (come più tardi in Masaniello alla Cappella Brancacci), ma con alcuni tratti di volto e con strumenti musicali che certamente dovevano appartenere all’epoca cittadina e al costume religioso del tempo.

Infine si accede, dopo qualche utile consiglio didascalico sulla fortuna di Giotto tra i critici e gli artisti contemporanei, all’ultima saletta, quella che ospita il Polittico di Bologna, così chiamato perché rinvenuto nella chiesa di santa Maria degli Angeli nel capoluogo emiliano. A colpirci ancora oggi in queste tavole è l’eleganza delle figure, la posa dell’angelo di sinistra, con il cartiglio in mano, e la Vergine così elegante e maestosa, dal volto però “padano”, umanizzato e localizzato in uno stile non proprio tutto giottesco, tanto da far pensare che la mano realizzatrice dell’opera non sia solo quella del maestro, ma anche quella del talentuoso allievo Taddeo Gaddi. Il polittico in questione, difatti, diventerà un esempio per tutti i pittori bolognesi di metà Trecento, avviando una prolifica tradizione più tardi approfondita dagli studi longhiani.

La mostra si conclude con quest’opera, chiudendo un percorso lineare ben ricostruito dai curatori, Pietro Petraroia e Serena Romano, che permette di trarre un bilancio complessivo della produzione giottesca e di trovare qualche risposta in più al mistero che avvolge ancora oggi il nome di Giotto nella storia dell’arte mondiale.