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In guerra alla fine non vince mai nessuno

Paolo, ex militare, racconta delle sue missioni all'estero e degli "effetti collaterali" della guerra al ritorno a casa.

Mi chiamo Paolo, sono nato a Cesena 57 anni fa e sono un ex militare. La mia infanzia è stata normale, direi felice, passata soprattutto con i nonni in campagna. A 18 anni ho fatto la scelta che avrebbe segnato la mia vita. All'epoca ero molto innamorato di una ragazza che però mi ha lasciato per un calciatore, uno con la Porsche. Oggi con lei siamo amici e ricordando quei tempi ne ridiamo insieme, ma allora ci rimasi male e come reazione decisi di arruolarmi. Certo non immaginavo che una volta messa la divisa poi sarebbe stato estremamente difficile togliersela, non solo fisicamente, anche mentalmente. Ma non sono qui per cercare scuse o responsabili per la mia situazione, ho fatto le mie scelte e ora, un po' alla volta, sto cercando di riprendere in mano la mia vita.

Nel 1982 ho partecipato alla mia prima missione all'estero, in Libano.
Il generale era, anzi è, una persona intelligente e nel suo contingente voleva solo ragazzi che usassero la testa, di cosiddetti Rambo non ne voleva. Dovevamo proteggere la popolazione civile, il che non era facile. Ci sono stati diversi attacchi alle forze armate straniere e penso che molte volte ci siamo salvati solo per il tricolore sulla divisa. Per qualche motivo gli italiani erano visti diversamente dagli altri militari stranieri.
Dopo il Libano ho partecipato ad altre sette missioni. In realtà dopo dieci anni mi sono congedato e sono passato alla marina mercantile ma vige comunque l'obbligo del richiamo e di fatto non è possibile rifiutarsi. Così ho partecipato alla missione NATO in Timor Est, sono stato in Somalia, in Afghanistan e nella prima guerra del Golfo in Iraq. Tra missioni militari e marina mercantile ho fatto il giro del mondo diverse volte. In uno di questi giri, in Spagna, ho conosciuto mia moglie, un'americana mezza italiana e mezza Sioux. Una donna straordinaria che mi ha dato una figlia altrettanto straordinaria, il bene più prezioso della mia vita. Con il mio lavoro guadagnavo bene e ho potuto pagare a mia figlia l'università e gli stage all'estero. Ora è biologa marina negli Stati Uniti. Per un periodo ha anche fatto parte di Greenpeace.
Il mio matrimonio invece non è durato. Non per colpa di mia moglie con cui continuo ad avere un ottimo rapporto ma un po' perché in casa c'ero poco e soprattutto perché le missioni segnano e rientrare nella vita civile è difficile. Esiste anche un nome per questo, è il trauma da post-combattimento.

Alla televisione si vedono i militari che allestiscono ospedali ma di quello che succede prima nessuno vuole parlare. Prima infatti bisogna “pulire il campo”, come si dice in gergo militare. Da militare vieni sottoposto a una serie di test e io sono risultato idoneo a fare il tiratore scelto. Non è qualcosa su cui ti soffermi troppo a pensare, diventi parte di un ingranaggio da cui è sempre più difficile uscire. Ma quando poi ti trovi appostato per giorni in una buca, con dall'altra parte una persona di cui vedi solo gli occhi, ti viene da pensare che anche l'altro, come te, avrà una moglie e dei figli, che non c'è odio per quella persona. Ma sai anche che alla fine comunque sarà o tu o lui. In guerra alla fine non vince mai nessuno. In Iraq una volta – eravamo in cinque uomini – ci è capitata davanti una bambina imbottita di esplosivo. Gli ordini erano chiari, eliminare il pericolo per salvare decine di altre vite. Ma era una bambina, difficile pensare che fosse là di sua volontà e mi è venuto da pensare a mia figlia. Quella volta ci siamo guardati e abbiamo deciso di provarci. E' andata bene e abbiamo liberato la bambina dall'esplosivo, ma se andava male era una strage. Di quello che succede là non parli mai perché non riesci a trovare una giustificazione per quello che puoi aver fatto. Pensi invece alle donne che vedi in fila per curarsi all'ospedale militare. Altrimenti impazzisci. Però gli occhi delle persone ti restano dentro. Oggi non dormo mai più di quattro ore a notte. Per il resto del tempo vedo occhi, occhi rassegnati, occhi pieni di stupore e occhi di chi è già morto anche da vivo. La democrazia non si può esportare con i cacciabombardieri ma solo con le scuole.

A un certo punto sono andato a lavorare in Svizzera nell'azienda di un amico. Quando l'azienda è fallita e mi sono ritrovato disoccupato tutto quello che avevo dentro è venuto a galla. Facevo cose preoccupanti, come partire per Berna e ritrovarmi a Zurigo senza sapere come ci ero arrivato. Per fortuna i servizi sociali svizzeri mi hanno seguito fin da subito. Dopo due anni però mi hanno detto che dovevo tornare nel mio paese. Così sono arrivato a Bolzano, l'unica città in Italia che conoscevo un po' per averci vissuto 19 anni fa. Anche qui sono stato accolto benissimo e ho trovato persone che mi hanno aiutato in tutto, anche psicologicamente. I miei risparmi sono finiti e per ora non ho un lavoro. Ho la maturità scientifica e un diploma da geometra ma con il mio curriculum tutte le offerte che ricevo sono nell'ambito dei servizi di sicurezza all'estero. Questo tipo di lavoro io però non lo voglio più fare. Anche se non ho casa non ho mai passato una notte all'aperto. Usufruisco del centro notturno, sto alla casa di accoglienza e lavoro alla mensa immigrati. La convivenza con gli altri ospiti della casa non è sempre facile, ma ho un posto dove stare e la possibilità di tenermi in ordine. Per me è importante non essere identificato come senzatetto. Mia figlia e mia ex-moglie non sanno della mia situazione. Ormai però sospettano che c'è qualcosa che non va e penso sia arrivato il momento di parlargliene. Vorrei raggiungere mia figlia negli Stati Uniti, ma prima voglio ritrovare il mio equilibrio.

Questo articolo è tratto dal numero di luglio 2016 del giornale di strada zebra.