Gesellschaft | Salto Gespräch

“Oltre Irene e me”

Andrea Curiazi e il video appello pro eutanasia legale in Italia dopo la morte della moglie, appena 30enne, malata di cancro. “Dalla politica un silenzio assordante”.
Irene e Andrea
Foto: Andrea Curiazi

Relegata ancora sullo sfondo delle cose di cui “non sta bene parlare” nell’alveo delle istituzioni, l’eutanasia legale è al contrario un tema maturo per essere finalmente affrontato in una discussione parlamentare. Per scegliere, davanti all’implacabilità della malattia, di consegnare degnamente il proprio corpo alla morte, senza arrendersi all’esercizio della rassegnazione. Ne è convinto Andrea Curiazi, che il 24 agosto ha perso la moglie Irene, 30 anni, deceduta, a causa di un adenocarcinoma polmonare diagnosticato al quarto stadio nel 2015, due giorni dopo aver concluso le lunghe procedure per potersi recare in Svizzera e ottenere aiuto medico alla morte volontaria. Irene si era rivolta anche a Marco Cappato, tesoriere dell'associazione Luca Coscioni che aveva accompagnato Dj Fabo nel suo ultimo viaggio. 

Irene e Andrea si erano conosciuti sul set, quando lei era impiegata come segretaria di edizione e lui come tecnico di macchina da presa digitale, lavoro che lo aveva portato un anno fa anche in Alto Adige per la realizzazione di un film su Ötzi. Quando Irene se n’è andata Andrea ha realizzato con l’associazione Coscioni un video appello (diventato virale in brevissimo tempo) ai politici, agli “Illustri rappresentanti dello Stato”, per chiedere una legge sull’eutanasia legale, perché era quello che voleva Irene. “Volente o nolente continuo a contare i giorni da quando lei non c’è più”, dice Andrea che rifugge, tuttavia, dal racconto della sua parabola emotiva perché, sottolinea, “ciò che conta non è la mia storia ma che un domani davanti alla morte possiamo essere liberi di decidere per noi stessi o, in quanto fiduciari, per qualcuno che ci sta a cuore”. 
 

La battaglia di Irene per vivere #LiberiFinoAllaFine

 

salto.bz: Andrea, continuerai a portare avanti il tuo impegno per la legalizzazione dell’eutanasia anche ora che Irene non c’è più?

Andrea Curiazi: Sì, ma senza centralizzare il tema intorno alla mia persona e non con il nome di Irene, perché quello che doveva fare lei in questo mondo lo ha già fatto. Io sono stato la sua “parte attiva”, Irene ci teneva a svegliare le coscienze collettive e a far capire che questa è una battaglia trasversale. E faccio fatica a definirla “battaglia” perché tale non dovrebbe essere, piuttosto una prosecuzione automatica di una discussione che finalmente anche in Italia ha avuto luogo con il primo step legislativo riguardo al testamento biologico. 

E qual è il tuo giudizio in merito alla legge sul biotestamento?

È un’ottima legge, teniamo anche conto del fatto che la prima proposta di legge in questo senso è stata fatta 32 anni fa. Abbiamo deciso, insieme a Marco Cappato e all’associazione Luca Coscioni, di pubblicare il video appello alla politica dopo l’approvazione in Senato del 14 dicembre della legge sul biotestamento, non per prendere le distanze dalla legge in questione ma per puntualizzare il fatto che questa non disciplina il fine vita tout court ma solo alcuni suoi aspetti, dunque rilanciare la discussione sull’eutanasia legale e disciplinare anche questo punto per me, ma anche per Irene, è diventato imprescindibile.

Nel giro di un paio di giorni il tuo appello è diventato virale, qual è stata, se c’è stata, la risposta degli “Illustri rappresentanti del popolo italiano” a cui ti rivolgevi nel video?

Il silenzio che è seguito al video appello è stato assordante. Noi ci siamo rivolti appunto, e non a caso, agli “Illustri rappresentanti del popolo italiano”, e ho insistito che si usasse questa formula. “Illustri” perché i politici devono dimostrare di esserlo in ogni loro azione e “rappresentanti” perché tali sono, e nella rappresentanza, non scordiamocelo, c’è il concetto di delega. Certo, non mi aspettavo di scatenare chissà quale rivoluzione ideologica, sapevo bene che quello dell’eutanasia legale sarebbe stato un tema che la politica avrebbe scansato volentieri alla fine della legislatura, mi è comunque dispiaciuto non trovare una sponda nemmeno in quei movimenti che dovrebbero essere, anche per eredità ideologica, più inclini a ragionare su tematiche del genere. Va da sé, però, che in campagna elettorale si parli soprattutto di abolire tutte quelle leggi che sono invise alla maggioranza degli italiani - e del resto è il leitmotiv di questi primi giorni di campagna - piuttosto che proporre qualcosa di audace, perché purtroppo così viene considerato il tema del fine vita. Non dico di farne una bandiera ma quantomeno di portarla all’interno del programma politico e verificare se si tratta di un argomento che ha riscontro nella società civile. 

Ne ha, secondo te?

Viviamo in un mondo in cui l’individuo sembra ammantato di un’assoluta sacralità, un’epoca che è quella dei social, degli autoscatti, della proiezione sociale di noi stessi, iper-curata e iper-laccata. Prendiamo anche la pubblicità, per esempio, i prodotti ci vengono venduti con il fine di renderci protagonisti, e in modo da poterci contraddistinguere rispetto agli altri in un ambito di differenziazione di fatto estremamente limitato. L’individualità è curata dal momento in cui nasciamo con la prima foto che ci scattano all’ultimo post sui social, eppure quando ci troviamo ad affrontare uno dei passaggi più importanti della nostra vita, che è la morte, non possiamo decidere per noi stessi, e questo è piuttosto paradossale.

Il silenzio che è seguito al video appello è stato assordante. Noi ci siamo rivolti appunto, e non a caso, agli “Illustri rappresentanti del popolo italiano”, e ho insistito che si usasse questa formula. “Illustri” perché i politici devono dimostrare di esserlo in ogni loro azione e “rappresentanti” perché tali sono, e nella rappresentanza, non scordiamocelo, c’è il concetto di delega.

A dirla con l’associazione Coscioni il “diritto di morire è il diritto umano più violato in Italia”.

Scegliere come andarsene dovrebbe attenere alla sfera delle libertà individuali di base di un paese occidentale quale è il nostro. 
 

Hai già espresso le tue volontà sul fine vita?

Appena qualche giorno fa ho compilato il form online dell’associazione Coscioni per le disposizioni anticipate di trattamento (DAT). È stato un momento molto importante per me.

La sedazione profonda continua, che rientra nell’ambito delle cure palliative, e che dopo la scomparsa di Marina Ripa di Meana ha riaperto le polemiche sull’eutanasia legale - sebbene siano due cose diverse -, è già stata definita da qualcuno una forma mascherata di suicidio assistito. Si ha quasi l’impressione che in alcuni casi venga alimentata deliberatamente una certa confusione alzando una cortina fumogena su temi inequivocabilmente delicati, e andando infine a parare sempre sulla cosiddetta sostenibilità morale dell’eutanasia, non trovi?

Credo che questa tendenza ci sia. Il tema, come ho detto, è talmente trasversale che chiunque deve avere la possibilità di esprimere un giudizio, tuttavia l’errore grande è imporre il proprio giudizio a tutti. Un errore che viene volontariamente e consapevolmente compiuto da tante persone. Alcune perché strumentalizzano la discussione dal punto di vista ideologico, altre perché coinvolgono la religione, altre ancora, come accade oggi, perché semplicemente è in corso la campagna elettorale.

L’individualità è curata dal momento in cui nasciamo con la prima foto che ci scattano all’ultimo post sui social, eppure quando ci troviamo ad affrontare uno dei passaggi più importanti della nostra vita, che è la morte, non possiamo decidere per noi stessi, e questo è piuttosto paradossale.

Non c’è il rischio che ora la pratica della sedazione profonda metta in ombra la validità delle ragioni per cui è opportuno legalizzare l’eutanasia?

La sedazione profonda, definita con la scomparsa di Marina Ripa di Meana la “soluzione italiana”, può risultare idonea per alcuni singoli che si trovano ad affrontare una situazione di fine vita, ma non se ne può parlare in termini universali e non può sostituirsi al dibattito sull’eutanasia legale in Italia. In altri termini, in presenza di malattie che non danno possibilità di guarigione siamo sicuri che si possa parlare della sedazione profonda - che peraltro è stata resa possibile da una legge appena approvata in quanto iprima era una pratica verosimilmente largamente diffusa, clandestina, per aiutare le persone a soffrire meno -, come soluzione adatta a tutti? Io non credo. Per Irene ad esempio non sarebbe andata bene, lei non voleva essere sedata in maniera continuativa.
 

Il testamento di Marina Ripa di Meana.

 

Manca, a tuo avviso, un’adeguata informazione e comunicazione sul tema del fine vita?

Da semplice cittadino, che ha vissuto una storia come quella accaduta a mia moglie, una storia di vita e di forza incredibile, posso dire che inevitabilmente ci siamo dovuti informare, ma in passato per noi quello del fine vita era un problema distante, anche se certamente percepito e nei confronti del quale si era prodotta empatia. Ci sono stati dei pionieri coraggiosi (e spero che Irene possa entrare nel novero di questi in futuro), come Piergiorgio Welby e Beppino Englaro, che con il loro sacrificio e impegno, tra l’altro portato avanti in condizioni fisiche, ma anche psicologiche come nel caso del padre di Eluana, terribili, hanno riempito quel buco informativo. È solo grazie alle iniziative dei singoli e di poche associazioni, come la Coscioni, se abbiamo nozione di queste tematiche.

Più film, più libri, più format di approfondimento ci sono più si comprende l’assoluta necessità di parlare di alcuni temi e di conseguenza più ci si avvicina alla politica, e si riesce a farle capire che il dibattito deve essere aperto, così come è stato per il biotestamento.

Con i canali culturali che possono fare la loro parte per aiutare a scardinare certi tabù e a far prendere coscienza di certe questioni. Come il cinema, per esempio.

Mi vengono subito in mente Miele di Valeria Golino e Mare dentro di Alejandro Amenábar. Più film, più libri, più format di approfondimento ci sono più si comprende l’assoluta necessità di parlare di alcuni temi e di conseguenza più ci si avvicina alla politica, e si riesce a farle capire che il dibattito deve essere aperto, così come è stato per il biotestamento. Nel momento di massima viralità del mio video appello mi è stato chiesto da un giornalista cosa pensassi del fatto che il video avesse raggiunto 2 milioni di visualizzazioni in soli due giorni, ho risposto che in qualsiasi modo si parli del problema e quanta più gente viene intercettata e costretta, se vogliamo, a confrontarsi, dandole ovviamente gli strumenti per effettuare le proprie valutazioni, rappresenta una spinta in avanti. Magari lo avessero visto in 10 milioni quell’appello. 

Un’altra cosa su cui riflettere è che sono due le potenziali difficoltà a cui chi sceglie di rivolgersi a strutture oltre confine per una morte assistita può andare incontro: la prima riguarda i limiti fisici, la seconda quelli economici, dato che il costo di accesso a queste procedure è piuttosto sostenuto.

Si parla di circa 11mila euro totali, dal primo step che riguarda la sottoscrizione alla Dignitas nella fattispecie, che è l’associazione che si occupa dell’accompagnamento alla morte volontaria in Svizzera, alla cremazione sul posto, perché sconfinare con una salma è complicato. Si tratta di somme importanti, ma va detto che la Dignitas prende anche in considerazione casi di non abbienti, e che la Coscioni ha ricevuto donazioni da destinare a chi non ha sufficiente disponibilità economica ma voglia completare l’iter in Svizzera, che ad oggi è l’unico paese europeo dove il suicidio assistito è riconosciuto anche ai non residenti. Le possibilità insomma ci sono. Ciò detto spostarsi in determinate condizioni fisiche è un problema enorme. Affrontare un viaggio da Roma alla Svizzera non sarebbe stato facile nemmeno per Irene. Noi i soldi li avevamo messi da parte, ma non sono cifre alla portata di tutti. E poi, intendiamoci, anche se la procedura fosse gratis ma perché bisogna andare a morire in un paese che non è il proprio? Irene era innamorata di Roma, la città in cui vivevamo, e quando pensava di poter fare in tempo a raggiungere la Svizzera l’idea di non poter morire a casa sua, nel suo letto, dove poi effettivamente è morta, ma con indicibile dolore, non è di certo stata assunta con estrema leggerezza.
 

Un Paese sulla carta ultracattolico come l'Italia, legato a filo doppio alle ben note cautele della politica, potrà mai arrivare a legalizzare l’eutanasia? 

Credo di sì, ma sono scettico che si riesca a raggiungere l’obiettivo entro la prossima legislatura, a meno che non si porti l’opinione pubblica su un terreno di conoscenza e sensibilizzazione tale da creare un gruppo di pressione civile, sociale così forte che costringa la politica a legiferare, così come è stato, seppure con imbarazzante ritardo, per il biotestamento. Gli attuali sondaggi e quindi le percentuali che vengono attribuite ad alcuni partiti rispetto ad altri e il sistema elettorale che non consentirà probabilmente di garantire maggioranze omogenee in Parlamento non fanno però ben sperare. Abbiamo già appurato in passato che con maggioranze eterogenee le grandi battaglie di civiltà sono quasi sempre naufragate. 

Anche se la procedura per l'accompagnamento alla morte volontaria in Svizzera fosse gratis ma perché bisogna andare a morire in un paese che non è il proprio?

Nel frattempo quanti altri casi Welby, Englaro, o come quello di Irene dovranno esserci ancora?

La Chiesa sicuramente costituisce un vincolo morale importante alla realizzazione di questa legge. Credo anche però che le parole che papa Francesco ha pronunciato a fine novembre abbiano dato un impulso non secondario alla conseguente approvazione della legge sul testamento biologico in Senato. Forse se non le avesse dette oggi non avremmo neanche questa, di legge. È anche vero che il Papa ha ricevuto lettere dai cardinali che lo avvertivano di non spingersi verso l’eresia. Il paese è quello che è, insomma. Io non posso prescindere dalle centinaia di messaggi che mi sono arrivati dopo il video appello. Erano di persone che sentivano l'esigenza di darmi sostegno, cosa peraltro di cui avevo bisogno non essendo particolarmente abituato all’esposizione mediatica, tanti mi hanno raccontato le loro vicende, e alcuni stanno vivendo situazioni simili a quella mia e di Irene. Francamente non credo che fossero tutti dei comunisti e dei senzadio. Dirò di più, amici stretti, alcuni anche ferventi cattolici, indipendentemente dal loro credo religioso, mi hanno detto che vorrebbero poter scegliere. A questo punto non è importante nemmeno il mio video appello, che si è esaurito nei tempi della viralità ordinaria, ciò che è importante è che un domani possiamo essere liberi di decidere per noi stessi o farlo, in quanto fiduciari, per qualcuno che ci sta a cuore. La storia di Irene, la nostra, il fatto che ci siamo amati moltissimo, tutto questo, anche, è secondario. Si tratta di storie individuali e come la nostra ce ne sono tante altre di cui non si sa nulla perché c'è chi non ha gli strumenti per farle conoscere, ma certo non per questo è meno “eroe” di altri.