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Stanze berlinesi

Sepp Mall racconta il suo ultimo romanzo che verrà presentato alla Biblioteca Civica di Bressanone mercoledì 14 dicembre alle ore 19.
sepp mall
Foto: Claudia Pircher

Realtà e immaginazione sono i piani su cui si sviluppa la trama di “Stanze berlinesi”, l’ultimo romanzo di Sepp Mall pubblicato da Keller editore con la traduzione di Sonia Sulzer. La realtà racconta di un padre, Erwin, che muore e di un figlio, Johannes, che saluta il genitore senza sapere com’era stata la vita paterna; l’immaginazione narra di un figlio che assiste a una seconda morte del padre, questa volta accompagnato da Klara, la donna di cui Erwin si era innamorato quando era un giovane soldato a Berlino.

Attraverso questo schema narrativo si conosce la storia di un uomo che ha tenuto nascosto una parte della sua vita: il prima da occultare è quello che lo vede arruolato nella Wehrmacht e legato a una ragazza tedesca che non sarà né la moglie né la madre dei suoi figli, il dopo da sapere è quello lo ricorda rispettabile figura politica di un partito locale e padre di famiglia. I pesi delle verità celate sono diversi eppure simili. Da una parte c’è il profondo amore per una donna che non appartiene al nucleo familiare, dall’altra i possibili crimini di guerra, due scenari questi capaci di scombussolare l’equilibrio emotivo non solo di chi li ha vissuti in prima persona ma anche di chi gli sta vicino. Leggendo nelle pagine di “Stanze berlinesi” il dubbio di un figlio sul passato del proprio padre tra le file delle forze armate tedesche, viene in mente l’analisi di Günther Anders di quello che accadde dopo l’uscita della miniserie televisiva “Holocaust”. Se in “Dopo Holocaust, 1979” Anders scrive: “[…] li ha turbati non solo il pensiero che i loro genitori avessero potuto commettere quei fatti, o esserne stati conniventi, ma che a loro stessi, in situazioni analoghe, potrebbe capitare di commettere azioni simili o di esserne ‘conniventi’”, nel romando di Sepp Mall Erwin si rivolge al figlio Johannes con queste parole: “‘E tu, naturalmente, non puoi fare a meno di chiedermelo’ disse mio padre, ‘visto che fai parte della generazione del dopoguerra. In realtà, tu vorresti sapere come era la guerra, e se anch’io sono stato uno di quei criminali della Wehrmacht dei quali adesso si parla ovunque’”.

Era il 1978 quando “Holocaust”, la miniserie televisiva americana, andò in onda raccontando l’olocausto attraverso il vissuto di due famiglie tedesche e fornendo l’occasione anche al pubblico tedesco di affrontare un tema che coinvolgeva tanto la responsabilità quanto la coscienza di un intero popolo. La difficoltà di fare i conti con un pesante passato è espressa anche da Sepp Mall attraverso le riflessione fatte dal suo protagonista. Sono di Johannes, infatti, questi pensieri: “Era noto […] che la maggior parte dei tedeschi della generazione della guerra era muta come una tomba, incline a mettere una pietra su tutto ciò che era imbarazzante. Ma il fatto che mettessi nello stesso calderone suo nonno con i Blockwarte e gli ufficiali della Gestapo, aveva mandato Alma su tutte le furie. Si era alzata di scatto e a denti stretti aveva sibilato che poteva anche essere vergogna quella che provava, che si poteva tacere anche per vergogna”. Eppure, nell’indagine sul passato del padre, Johannes non scopre la crudeltà di un soldato ma la paura e l’amore di un uomo.

salto.bz: Johannes e la figlia Alma sono i personaggi che maggiormente fanno i conti con l’ignoto passato di Erwin lasciando aperta la possibilità che l’uomo provasse vergogna per aver ciecamente obbedito a ordini di guerra. Sono dunque tre le generazioni che accusano il peso di un pesante passato. Se Johannes sembra accusare soprattutto il fatto di non sapere nulla della giovinezza del padre, cosa soffre Alma?

Sepp Mall: In sostanza, Johannes e sua figlia provano le stesse emozioni. È soprattutto il caos dei sentimenti dovuto alla morte del padre e del nonno che porta a interrogarsi sulla sua vita – e in definitiva anche a interrogarsi su se stessi. Improvvisamente si scoprono dei vuoti, improvvisamente ci si rende conto di non aver parlato o chiesto abbastanza quando c’era ancora tempo. Alma, quindicenne, è naturalmente curiosa di sapere cosa abbia fatto il nonno come soldato; dopo tutto, ha appena studiato la Seconda Guerra Mondiale a scuola; allo stesso tempo, rifiuta il sarcasmo del padre e tende a difendere ciecamente il nonno. Come si scopre verso la fine del libro, Alma non ha del tutto torto nel ritenere che alcune persone rimangano in silenzio semplicemente per vergogna – anche se la vergogna di suo nonno non ha assolutamente nulla a che fare con la vergogna per un crimine.

Nel suo percorso di riscoperta del padre Johannes conosce un uomo fragile e innamorato. La storia che ci si aspettava di scoprire era quella della brutalità della Wehrmacht invece si scopre la vicenda di un soldato terrorizzato dalla possibilità di morire. Il prima di Erwin, cioè il passato che l’uomo tiene nascosto ai suoi figli, parla dunque di fragilità e paura invece che di violenza?

Non volevo certamente scrivere il centesimo romanzo sul terribile segreto che si cela dietro il silenzio dei genitori, piuttosto volevo dare alla vita nascosta di un padre una nuova dimensione e quindi dare all’uomo morto e allo stesso tempo ai suoi figli qualcosa come dignità e bellezza. Anche la scoperta del padre da giovane innamorato dà un nuovo significato alla vita di Johannes. A un livello più profondo, tuttavia, io come autore ero interessato a sperimentare dove può portare il dolore per la perdita di una persona cara. E naturalmente – per ristabilire l’ordine delle cose – una seconda vita non può che concludersi con una seconda morte, ma questa volta diversa dalla prima.

È attraverso il piano dell’immaginazione che Johannes intraprende il viaggio nella giovinezza del padre, un piano quello della visione che sembra permettere a Johannes di essere uno spettatore esterno pronto ad accogliere ogni dettaglio con curiosità. Perché è così faticoso fare i conti con il passato dei propri genitori? Nel caso di Johannes qual è la difficoltà maggiore?

In fondo si tratta sempre di se stessi, in questo caso del narratore Johannes. Il poco che rimane di un familiare deceduto spesso fa disperare. E rende perfino la propria vita più piccola e più misera. Una valigia rossa, un orologio da polso, alcune carte sparse, qualche ricordo, è semplicemente troppo poco per Johannes rispetto alla pienezza dei quasi 80 anni di vita di suo padre. Questo è anche il motivo del “trucco letterario” di riportare in vita il morto: si tratta delle sue stesse origini e quindi di se stesso. Il padre del romanzo non ne ha più bisogno, ha già tutto alle spalle.

Günther Anders in “Dopo Holocaust, 1979” spiega che è l’espressione “superare il passato” ha poco significato perché quello che è avvenuto rispetto alla storia del nazismo è stata una rimozione. Cosa pensa a riguardo di quest’affermazione di Anders? È forse cambiato qualcosa negli ultimi decenni rispetto alla rielaborazione del trauma del nazismo?

In questo contesto, si parla spesso di “Vergangenheitsbewältigung” – non so, se c’è una parola italiana, che esprime proprio la stessa concetto. Ma non si può “venire a capo” di un passato, di un evento storico, nel senso che l’argomento sarà prima o poi definitivamente risolto. Quello che si può e si deve fare è affrontarlo, come storico, come artista o come persona privata. Ognuno per sé, ancora e ancora. Più le persone si sforzano e maggiore è la distanza, anche in termini di tempo, meno difficile diventa. Anche per questo motivo, negli ultimi decenni, pure in Alto Adige, fare i conti con il passato nazista è diventato un po’ – come dire – meno complicato, meno ideologico e quindi più proficuo per il futuro.