“La lotta di oggi è il futuro di domani”
Riassumere in poche righe la straordinaria vita di Porpora Marcasciano non è certo un’impresa semplice. Classe 1957, sociologa, scrittrice e presidente del Mit (Movimento identità transessuale), è stata, e rappresenta tuttora, una figura chiave all’interno dei movimenti di liberazione dagli anni ‘70 in poi. Una storia personale ma al contempo un percorso collettivo in grado di intrecciare lotte e resistenze portate avanti tra le pieghe oscure di una marginalità imposta forzatamente e a sua volta incubatrice di soprusi e violenze contro le “trans sovversive”, così definite e punite di conseguenza da uno stato e una società che ne proibivano e negavano l’esistenza. Da Bologna, città in cui vive e in cui recentemente è stata eletta consigliera comunale e Presidente della Commissione Pari Opportunità, Marcasciano arriverà a Bolzano il prossimo 18 novembre dove, assieme a Centaurus Arcigay, presenterà nella cornice del Teatro Cristallo, uno dei suoi testi più importanti e conosciuti. L’appuntamento sarà dalle ore 18.00 alle ore 20.00, presso la Sala Giuliani del Teatro Cristallo in via Dalmazia 30.
salto.bz: Porpora, la prossima settimana la vedremo a Bolzano per presentare “Tra le rose e le viole”, un libro del 2002 e che è stato ripubblicato successivamente, nel 2020, in una nuova e aggiornata edizione. Dopo quasi vent’anni rimane ancora un testo di riferimento per ricostruire la storia e le storie del movimento trans degli ultimi decenni, una bussola importante anche per le nuove generazioni. Perché il motivo di così tanto successo?
Porpora Marcasciano: L’importanza del libro risiede nel fatto che si tratta del primo esperimento di narrazione collettiva, a partire dal racconto individuale di dieci persone trans. Questa è la prima presa di parola sia dell’autrice - che sarei io - sia delle persone che vengono raccontate, o meglio, si raccontano in prima persona. È difficile trovare un lavoro di questo genere prima del 2002, un lavoro cominciato come un’azione conseguente a un senso di responsabilità che mi sentivo addosso, avevo l’esigenza di raccogliere delle testimonianze su quali erano i vissuti delle persone, quali erano le letture del mondo. Scrivere "Tra le rose e le viole" era importante per lasciare una traccia definita di un percorso che altrimenti sarebbe stato destinato all’oblio. Era un azzardo, a tal punto che non immaginavo assolutamente di riuscire a pubblicarlo, pensavo fosse impossibile. Infatti le interviste inizialmente furono sedici e quando si palesò la possibilità di pubblicare l’opera sono stata costretta a selezionarne solo alcune. Tutte queste testimonianze messe assieme restituiscono il senso, un significato complessivo, a tutto quel periodo storico che va dagli anni sessanta agli anni novanta.
Cosa è cambiato oggi?
Molte cose, a partire dai termini stessi che utilizziamo. Il sottotitolo del libro che presenterò a Bolzano è lo stesso della prima edizione, ovvero “Storia e storie di transessuali e travestiti”. Quel termine, travestiti, noi oggi lo declineremo in molti altri modi, da gender variant, a non-binary, a transgender. Già allora la stessa parola transgender non si utilizzava ed è dunque importante sottolineare quanto sia cambiato il mondo a vent’anni dalla prima edizione. Oggi abbiamo un vocabolario molto più ricco e rappresentativo che ci descrive e permette di nominarci. Stiamo assistendo sicuramente a un cambiamento epocale. Prendiamo i social per esempio. Il loro sviluppo ha permesso di mettere in comunicazione persone, gruppi e categorie in tutte le parti del mondo, scambiarsi osservazioni e opinioni e facendo in modo di far prendere più corpo e sicurezza a queste esperienze. Non sono sicura però che tali esperienze abbiano preso anche più sostanza: la realtà è spesso e volentieri ben diversa e più complessa rispetto a quella narrata sui social ma se non altro hanno sicuramente rivoluzionato la vita a tutti coloro che vivevano nella solitudine e senza punti di riferimento.
Non tutto però è cambiato in positivo…
Già. Registro una regressione sotto molteplici aspetti, a partire dall’aumento della violenza, del pregiudizio e dell’esclusione nei confronti delle persone trans. Questi fenomeni sembravano aver subito una battuta d’arresto ma non è così e continua a peggiorare, chiaramente alimentati da una certa politica, da certo pensiero e da certi pulpiti, a partire da quelli che agitano lo spauracchio della teoria gender.
Oltre alle fette conservatrici troviamo tanto storicamente quanto recentemente la corrente TERF (femminista radicale trans-escludente) continua a rivelarsi molto ostile alle rivendicazioni dei movimenti per i diritti delle persone trans. Perché tale avversione? E quanto è esteso il fenomeno?
All'interno del mondo femminista di TERF se ne contano ben poche, ma restano comunque una minoranza che continua a far rumore, spesso formata da donne di una certa età, borghesi e intellettuali che nei fatti hanno sempre avuto il diritto di parola, sui giornali, in pubblico e pure nelle università, considerando che molte sono accademiche. Questo ha fatto sì che da minoranza quali sono sembrassero una gran voce, ma così non è. La deriva che ha preso il dibattito sulla Legge Zan in merito all’identità di genere è stata assurda. Le TERF hanno attaccato in maniera aggressiva e violenta, mentre il resto del femminismo è rimasto a guardare pressoché in silenzio, lasciando correre e sperando che la situazione si risolvesse da sola. Ma così non è stato, visto l’affossamento, ma la responsabilità non è solo destra, da cui ce lo aspettavamo, così come da Italia Viva, che pensa solo al potere e a far giochini politici. Non ci aspettavamo, o almeno non in maniera così evidente, attacchi di questa gittata provenienti dall’altro fronte: ad ogni convegno, seminario o conferenza alla quale venivo invitata spuntava sempre una loro rappresentante pronta ad attaccare in maniera decisamente “muscolare” e aggressiva.
Da qualche anno si assiste a una presenza sempre più numerosa di persone trans immigrate, soprattutto dall’America Latina. Se prendiamo in prestito i concetti di “assi di oppressione” portati da Angela Davis ci accorgiamo che le difficoltà incontrate nel percorso dell'autodeterminazione sono ancora maggiori. Come si caratterizza in questo frangente un approccio transfemminista?
Innanzitutto ricordando che quel “trans” di “transfemminismo” non significa di per sé intrecciare l’esperienza trans a quella del femminismo ma è inteso come intersezionalità, una comunanza di tutta una serie di rivendicazioni e battaglie assimilabili a un determinato percorso, individuando l’oppressione in matrici ben definite come la violenza del capitale e del patriarcato. E questo concetto fu proprio Angela Davis a spiegarmelo chiaramente quando venne a trovarci al Mit. Ricordo che insistette molto su questo aspetto portandoci l’esempio delle carceri degli Stati Uniti in cui, sebbene siano molte le persone trans rinchiuse, la quasi totalità è rappresentata da nere, immigrate e ispaniche. La componente razzista anche in questo caso è evidente, d’altronde il carcere è esso stesso il riflesso delle violenze che si perpetuano al di fuori.
L’assenza di diritti e riconoscimenti non può che favorire l’illegalità, anche per le persone trans. Lo ha ricordato spesso così come ha denunciato in più occasioni e con diverse pubblicazioni l’inadeguatezza del sistema penitenziario italiano. Cosa comporta il carcere per una persona trans?
Io stessa, come molte altre, sono finita in carcere. Era il lontano 1981: fui arrestata al termine di una lezione universitaria, ero truccata e finii incappata in una retata della polizia, questa la dice lunga! Rimasi in carcere, rigorosamente maschile, per quattro giorni. Ero molto giovane e fu un’esperienza traumatizzante, terribile. Ancora oggi porto le cicatrici. Le donne trans che finiscono dentro oggi sono soprattutto migranti e vengono recluse in sezioni speciali, i cosiddetti “reparti trans”. In alcuni istituti vengono creati appositamente, in altri vengono semplicemente definiti come tali ma sono aree in cui vengono isolati i detenuti protetti, solitamente sex offenders e collaboratori di giustizia. In questo modo se sei trans vieni detenuta due volte, la tua identità non viene presa in considerazione, non vengono garantite le cure ormonali di cui la persona ha bisogno. L’unico aspetto positivo è che queste situazioni stanno gradualmente acquisendo ribalta grazie a diversi progetti e associazioni che si occupano di carcere e diritti. Il problema più grosso resta il “dopo”. L’uscita dal carcere rappresenta un grande vuoto: non ci sono percorsi e strutture di accoglienza, la persona è destinata a tornare nuovamente ai margini della società.
Un altro aspetto che hai descritto nei tuoi libri è che in un contesto di marginalità privo di alternative, la prostituzione diventa molto spesso una tappa obbligata per la persona trans. È ancora così?
La situazione è molto complessa, e sì per la stragrande maggioranza la prostituzione è la tappa di un percorso obbligato. La linea di confine tra obbligo, necessità e libera scelta è molto sottile. Io ho esercitato la prostituzione per 22 anni, questa demarcazione non è mai stata così chiara. Le trans sudamericane lo danno invece per scontato. Vedo una forma di accettazione passiva di tutto questo: così è stato e così sarà, dicono, rassegnandosi all’ineluttabilità della vita.
La Legge n.164 sulla transizione è stata sicuramente una delle più grandi conquiste che il movimento trans sia mai riuscito ad ottenere. Oggi c’è chi pone l’accento su una legge ritenuta obsoleta e che stigmatizza ulteriormente la persona trans. Lei crede che la medicalizzazione abbia un ruolo sulla stigmatizzazione e la patologizzazione di chi la richiede?
Innanzitutto bisogna dare le giuste proporzioni storiche: ricordo che la Legge n.164 fu approvata nel 1982; prima di allora le trans - parlo al femminile perché allora i trans ancora non si palesavano - erano completamente escluse dal mondo. A nessuna veniva riconosciuta la propria identità anche quando si recavano a Casablanca o in altri luoghi nel mondo per l’operazione di cambio sesso. Allora c’era una situazione di urgenza da affrontare e in piena epoca democristiana si riuscì a far passare una legge di questo tipo. Un risultato straordinario per l’epoca, e questo va detto e riconosciuto, perché non ne ha beneficiato solo la comunità trans rimasta per anni sommersa ma la democrazia e la libertà tutta. Nulla toglie che in questi 40 anni il vuoto del dibattito politico su un possibile superamento della 164 è stato incredibile, e non solo nei palazzi della politica ma anche all’interno del mondo trans. Tutto questo ha generato poi una gran confusione perché molto spesso si polarizzano tutte le posizioni sugli aspetti della medicalizzazione, della patologizzazione e dei percorsi obbligati. Molti la strumentalizzano, accusando anche il Mit, per questo andrebbe fatta un po’ di chiarezza.
Da dove cominciamo?
Se per medicalizzazione intendiamo i processi medici come cure endocrinologiche e interventi chirurgici, allora in tal caso non vedo quale sia l’alternativa, dal momento che la stragrande maggioranza delle persone trans chiedono questo percorso. Quello che non chiedono e rifiutano sono tutti i passaggi legali amministrativi e burocratici che si ricamano sopra, dalle perizie ai tribunali. Sono tappe decisamente lunghe e pesanti da affrontare. Per quel che riguarda la patologizzazione invece, è difficile che una persona trans si senta malata per il semplice fatto di essere trans. La questione, e lo dico molto francamente, è che noi del Mit, dal momento che gestiamo un consultorio per la salute e il benessere della persona trans, veniamo considerate automaticamente a favore della patologizzazione. Questo è il grande equivoco che si genere quando i servizi fondamentali vengono ridotti a una sorta di forca caudina dentro i quali bisogna passare per forza, ma anche in questo caso non è così: se ti affidi al servizio privato per esempio, se paghi profumatamente, come avveniva prima della legge 164, puoi fare tutto quello che vuoi: paghi medici, avvocati, perizie e snellisci il processo. La sanità pubblica riconosce quei passaggi come gratuiti, con tutti i limiti e le lentezze del servizio pubblico, che colpisce tutti e non solo le persone trans. Ma tra il bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto, io lo vedo mezzo pieno perché questo processo permette a tutte le persone di intraprendere un percorso di transizione gratuito. Tutto questo passa in secondo piano e io qui non riesco a non fare un discorso di classe: chi se lo può permettere il problema non sussiste. In questo campo, come in tutti, il problema resta l'accessibilità e la garanzia dei servizi universali, il diritto alla prestazione indipendentemente dal reddito: questa è la differenza che ci si ostina a non prendere in considerazione. La patologizzazione delle persone trans del resto fu al centro di uno scontro molto acceso con una professoressa TERF a un convegno universitario: la sua tesi, da femminista, era che noi eravamo patologiche e quindi potenziali stupratori in quanto maschi. Dopodiché per accedere a un percorso chirurgico di transizione è necessario avere un tipo di attestato rilasciato da un medico che spieghi il perché sto facendo quest’operazione, questo è un obbligo del SSN. I depatologizzatori sulla praticità non riescono ad andare oltre. Non c’è pensiero, non c’è dibattito, non c’è mai stato un vero confronto sul tema. Ed è qui che punto il dito contro il mondo trans, me compresa, perché non siamo riuscite a elaborare un’idea di salute e di benessere che sia all’altezza della nostra esperienza.
La sua candidatura e il suo ingresso in Consiglio comunale a Bologna l’ha resa protagonista di alcune critiche, soprattutto da parte dei movimenti di cui ha sempre fatto parte. Cosa l’ha convinta ad accettare?
Rispetto alla scelta è di candidarmi tato tutto improvviso, non è stato meditato ma è successo tutto in mezz'ora. Prima mi sono tirata indietro ma alla fine mi sono lanciata. Tra l'altro non ho nemmeno fatto campagna elettorale perché ero impegnata in un film. Quello che avevo pensato nell’immediato è stato: “io ci provo”, il solo fatto di essere candidata sarebbe stato un segnale molto forte. E poi ho pensato che non si può rimanere imbrigliati per sempre dentro una narrazione che ci vede, e ci vuole, perdenti ed escluse. L'ho fatto. Ho voluto lanciare un sasso in questo stagno che si è creato da tempo, specchio di una città sempre più restia ad approcciarsi al voto e alla politica.
Continuerà a scendere nelle piazze?
Certo che continuerò a manifestare, non sarà un'elezione a cancellare 50 anni di militanza. Lo farò anche se nelle ultime iniziative a cui ho partecipato qualcuno ha cominciato a guardarmi con sospetto a causa di questa elezioni in consiglio comunale. Alla manifestazione che si è tenuta in seguito all'affossamento del DdL Zan mi è stato detto che no, i politici non parlano dal palco. E così, in un attimo, per qualcuno sono diventata una politica, basta così poco per annullare decenni di attivismo? Non credo proprio. Bisognerà superare ed elaborare anche questa.
Lei arriverà Bolzano in concomitanza del Transgender Day of Remembrance del 20 novembre. Quale significato assume oggi questa giornata, specie alla luce del recente affossamento del DdL Zan appena citato?
Sarà una giornata molto particolare anche rispetto agli anni passati: l'affossamento del DdL Zan dimostra che è in atto un attacco all'identità di genere. Per questo abbiamo deciso all'unanimità di spostare la Trans Freedom March a Roma quel giorno. Sarà importante perché sarà un grande momento unitario, in mezzo ai palazzi del potere e della Chiesa. Ci stiamo investendo molto e la vediamo concretizzarsi giorno dopo giorno. Concludo dicendo che la mia, la nostra, è una storia importante e preziosa. Va ripresa e donata alle nuove generazioni, per cercare tutti i possibili agganci, tessiture tra il passato, il presente e il futuro. Non esiste uno stacco: chi pensa che quello che racconto nei miei libri sia archiviato e concluso non è riuscito a comprendere che la storia invece è un concatenarsi di eventi. Quello che succederà domani, il futuro che costruiremo, dipende da quello che facciamo oggi e dalle lotte che decidiamo di portare avanti.
Die TERFs müssen eindlich
Die TERFs müssen eindlich einsehen, dass die Gender-Identität über alles steht. Schon die Differenzierung zwischen Frau und Trans-Frau ist diskriminierend. Identifiziert sich jemand als Frau, so ist es eine Frau.
Alle Frauentoiletten sollen an die Bedürfnisse von ALLEN Frauen ( und ich sage bewusst nicht Trans-Frauen) angepasst werden und Pissoirs installieren. Nur weil Vagina-Frauen nicht gerne im stehen Pinkeln, ist es nicht rechtens, wenn Penis-Frauen deswegen unterdrückt werden und sich an an die Normen von Vagina-Frauen anpassen sollen.
Natürich müssen ALLE Frauen den gleichen Zugang an alle öffentliche Dienstleistungen erhalten, auch den Zugang zu Frauenhäuser, und zwar unabhängig von ihrem Äußeren. Denn ob jemand eine Frau ist hängt ausschließlich von der Gender-Identität ab, und nur die Person selbst kann dies definieren.
Nieder mit den TERFs, denn diese sind im Grunde verkappte Agenten des Patriarchats mit ihrer cisgenderzentrischen, biozentrichen, normopathischen Unterdrückungsideologie!