“Così ho preso la mia prima stella”
Trentadue candeline spente questa settimana e una “medaglia al valore” conquistata a tempo di record. Mathias Bachmann, chef del ristorante Apostelstube aperto solo due anni fa all’interno dello storico Hotel Elephant di Bressanone, ha ricevuto la sua prima stella Michelin nell’ambito dell’edizione numero 65 della Guida gastronomica più prestigiosa d’Italia, ed è l’unica novità di quest’anno in Alto Adige in mezzo a una schiera di conferme.
Mathias arriva da Rio Pusteria ed è figlio d’arte, il padre, Helmut Bachmann, cuoco rinomato, è stato insegnante per molti anni alla scuola provinciale alberghiera Emma Hellenstainer di Bressanone ed è co-autore del celebre libro “So kocht Südtirol”, per citarne uno.
Il “delfino”, che nel 2007 ha rappresentato l’Italia ai campionati mondiali juniores di cucina in Giappone, segue una filosofia precisa, modellata dopo anni di preparazione con alcuni dei migliori addetti ai lavori (pluristellati) della gastronomia gourmet: “Cucinare con semplicità cercando di esaltare il gusto proprio delle singole pietanze. Mangiare diventa così un viaggio dei sensi che lascia un segno indelebile nel tempo”. Il mantra campeggia sulla pagina web dedicata all’Apostelstube, ristorante da appena 4 tavoli e una ventina di posti (ma le “misure”, si sa, non contano), fiore all’occhiello della città vescovile.
salto.bz: Bachmann, la prima stella non si scorda mai. Ci racconta di quando ha scoperto che ce l’aveva fatta?
Mathias Bachmann: Un venerdì sera abbiamo ricevuto la telefonata dalla Michelin durante il servizio, quando abbiamo realizzato che avevamo preso la stella è stata una soddisfazione senza paragoni. Naturalmente non si sa quando arriva l’ispettore, la sua visita è rigorosamente anonima e non abbiamo capito chi fosse finché non ha pagato il conto e lasciato un biglietto da visita alla reception, senza dire nulla.
Che effetto fa ricevere questo riconoscimento a trentadue anni appena compiuti?
Sono giovane, è vero, ma da 18 anni vivo praticamente in cucina, facendo esperienza sempre in ristoranti di altissimo livello, e tutti questi anni di duro lavoro oggi mi hanno portato a questo risultato. Sono elettrizzato per questa stella, per me questo è sempre stato un sogno e un obiettivo da raggiungere. E, devo dire, il traguardo lo abbiamo tagliato piuttosto velocemente se contiamo che abbiamo aperto il ristorante da appena due anni.
Come ha festeggiato?
Niente di eccezionale, ho brindato con la famiglia e la fidanzata e naturalmente con il team in albergo.
Torniamo alle origini. Quando è scattata la scintilla per questo mestiere?
Mio padre ha avuto un ruolo fondamentale nella direzione professionale che ho scelto, è da lui che ho ereditato la passione per la cucina. Già da piccolo cercavo di rubare con gli occhi il mestiere mentre lui era ai fornelli. Sono cresciuto con questo lavoro e mi è sempre piaciuto, era l’unica cosa che volevo fare, tanto da non avere piani di riserva. E il sogno poi si è concretizzato. Da mio padre ho imparato che se si tiene duro e si lavora sodo si può arrivare ovunque.
E lei di strada ne ha già fatta molta. Qual è stato il suo percorso?
A parte diversi stage, con Joachim Wissler (Vendome Colonia), Sergio Herman (Oud Sluis), Jonnie Boer (De Librije Zwolle), Sven Elverfeld (Aqua Wolfsburg), Peter Gilmore’s Quay a Sydney miglior cuoco australiano, la mia prima esperienza l’ho fatta all’Hotel Stafler di Mules, dove sono rimasto per tre anni, sotto l’ala di Peter Girtler. Poi due anni con Karl Baumgartner allo Schöneck di Falzes. A seguire tappa in Germania con Hans Haas al Tantris di Monaco. Al ristorante Torre del Saracino di Vico Equense con chef Gennaro Esposito sono stato circa un anno; in Tirolo da Gerhard Wieser al ristorante Trenkerstube dell’Hotel Castel per quattro anni, e alla fine sono approdato all’Hotel Elephant.
Mio padre ha avuto un ruolo fondamentale nella direzione professionale che ho scelto, è da lui che ho ereditato la passione per la cucina. Sono cresciuto con questo lavoro e mi è sempre piaciuto, era l’unica cosa che volevo fare, tanto da non avere piani di riserva
Quanto conta la formazione canonica delle scuole di cucina? Farsi le ossa viaggiando è preferibile?
Le scuole sono importantissime. Io per esempio ho frequentato l’alberghiero a Bressanone. Prima di andare all’estero bisogna imparare le basi della cucina, c’è poco da fare. Viaggiare è altrettanto essenziale a mio avviso, per studiare altre tecniche, altre materie prime, piatti diversi sia sotto il profilo del gusto che della presentazione. Io stesso ho visitato molti posti finora, l’Australia, il Giappone, il Nord America, il Messico, la Thailandia, la maggior parte dell’Europa, e ho assorbito qualcosa in ogni paese dove sono stato. E quello che ho imparato lo metto in pratica, proporre solo una cucina regionale mi sembrerebbe limitante.
La cucina è contaminazione, del resto.
Per me sì. Non ho infatti una linea prestabilita e nemmeno la voglio, mi sento un creativo e oso. Sperimento tecniche e prodotti giapponesi, francesi, italiani, tirolesi, un mix di culture gastronomiche, insomma. E vado di fantasia.
La filosofia del chilometro zero quindi non è una "conditio sine qua non" per lei.
Cerco di usare prodotti locali ma non è qualcosa di strettamente necessario. Per me l’importante è che la materia prima sia di altissima qualità, da dove viene è secondario.
Come nasce un piatto di chef Bachmann?
A volte in maniera velocissima, mi viene un’idea e poi tutto funziona come in una coreografia studiata, in altri casi ci vuole anche fino a un anno per rendere il piatto perfetto, attraverso prove su prove. In un piatto cerco la “rotondità”, attraverso consistenze diverse, cerco di combinare insieme il dolce, l’agro, l’amaro, il croccante, il cremoso per stimolare tutti i sensi. Voglio emozionare il cliente. Anche raccontando un po’ di storia.
Che intende?
Le faccio un esempio. L’Hotel Elephant è stato il primo albergo in Alto Adige ad aver ricevuto la stella Michelin nel ’62, che poi ha mantenuto fino al ’70. E ora l’abbiamo riconquistata. Il nome dell’albergo, come noto, deriva dall’elefante Soliman che dall’India affrontò un lungo viaggio verso Lisbona attraverso Genova in direzione delle Alpi, toccando anche Bressanone per giungere infine a Vienna. Ho inventato un aperitivo per omaggiare, riproducendolo, il viaggio del pachiderma, ho scelto 4 città e per ognuna ho proposto un piatto tipico della zona, in miniatura.
Non ho una linea prestabilita in cucina e nemmeno la voglio, mi sento un creativo e oso
Il suo cavallo di battaglia?
Direi il maialino croccante su crema di birra scura, con cavolo cappuccio e salsa di cumino nero.
Le fonti di ispirazione sono anche extra culinarie?
Certamente, sono dappertutto, nella natura soprattutto, vado spesso in montagna nel mio giorno libero, e molto in bicicletta, è così che mi ricarico e così che nascono nuove idee.
Si ha questa immagine distorta del lavoro di cuoco, specie da quando assistiamo a questa sovraesposizione di chef famosi negli show culinari in tv, ma la realtà è diversa. Prima di arrivare a certi livelli bisogna fare tantissima gavetta, allenarsi, come nello sport
C’è una reale difficoltà oggi a reperire giovani che vogliano intraprendere una carriera da chef?
Questo problema esiste. Finora devo dire tuttavia che ho avuto la fortuna di trovare ragazzi in gamba e motivati. Certo è un lavoro impegnativo, che richiede molti sacrifici e questo è da mettere in conto. Tanti invece pensano che sia una passeggiata e hanno questa immagine distorta del lavoro di cuoco, specie da quando assistiamo a questa sovraesposizione di chef famosi negli show culinari in tv, ma la realtà è diversa. Prima di arrivare a certi livelli bisogna fare tantissima gavetta, allenarsi, come nello sport. Testa bassa e olio di gomito per arrivare a meta.
E lei cosa vede nel suo futuro?
Spero di continuare su questa strada che ho intrapreso, lavorare bene, affinare la tecnica, diventare sempre più bravo. E mi auguro che tanti giovani si uniscano a me in questa avventura.