Thank you for bombing

È stata definita una condizione esistenziale quella del reporter di guerra, voyeur dell'orrore, testimone disarmato dell’irracontabile, artigiano della notizia. L’ultima fatica della regista austriaca Barbara Eder (Inside America, Blick in den Abgrund), Thank you for bombing, in concorso al Bolzano Film Festival Bozen, indaga il “dietro le quinte” di tre corrispondenti di guerra inviati in Afghanistan dopo che un gruppo di soldati americani ha dato fuoco a un libro del Corano innescando un “effetto farfalla” dalla corta distanza. Il film è diviso in tre atti che si intersecano nel finale, in ogni episodio la prospettiva è talmente ravvicinata da precludere l’interpretazione; è la grammatica delle immagini, ruvide, prive di alcun potere evocativo, in un’aderenza collosa con la realtà dei fatti, che monopolizza il racconto. Si sta con le pietre, la polvere, il sangue, i fucili puntati, la paranoia.
Nel primo capitolo, forse il più “stanco”, un reporter austriaco di mezza età Ewald (Erwin Steinhauser), in attesa di imbarcarsi per Kabul, crede di riconoscere l’uomo responsabile di un massacro nel Kosovo in cui perse la vita, anni addietro, anche un collega cameraman. Mentre insegue incautamente il presunto colpevole fra i duty-free e perfino nei bagni dell’aeroporto, escogitando un modo per farlo arrestare, la solitudine di Ewald - affetto da disturbo post traumatico da stress - si rivela in tutta la sua drammatica autenticità. Nel secondo atto - probabilmente il più espressivamente potente e cruento - Lana (Manon Kahle), un’ambiziosa giovane giornalista affamata di storie, deve combattere contro la discriminazione sessuale dei colleghi e la misoginia della cultura afghana. Si troverà, fiutando una possibile pista, in una stanza con due soldati americani che, in cambio di informazioni, le faranno passare un brutto quarto d’ora. Cal (Raphael von Bargen) è il terzo protagonista del film, borioso e frustrato reporter che, in attesa dello scoppio di una bomba o di un conflitto da documentare, trascorre le sue giornate in un’apatia a malapena sopportabile. Cal è, verosimilmente, nell’immaginario collettivo, l’incarnazione del corrispondente di guerra “alfa”, arrogante e irriguardoso quel tanto che basta da poter compiere, senza inutili scrupoli, le sue “missioni”; ma è anche portatore sano di una fragilità che diventa irrimediabilmente un detonatore di empatia.
Quali sono i fatti e come vengono riportati, il trauma dell’esperienza: attraverso queste lenti d’ingrandimento Eder traccia un ritratto per nulla agiografico, ma critico fino a essere provocatorio, di questi audaci antieroi al fronte, depositari di una responsabilità solenne, quella di fare da raccordo fra l’opinione pubblica e le evoluzioni di una crisi globale nella verità del momento che filtra attraverso macchine fotografiche, videocamere e taccuini. Per poter sfuggire alle insidie della fiction, per imprigionare la realtà occorre una precisa coscienza etica e deontologica, sembra voler dire il film. Domandarsi se questo assioma venga costantemente rispettato è un esercizio necessario e mai ozioso.