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Nasce prima la lotta o la gallina?

“Capannone n. 8” racconta la vitalità della contestazione attraverso una storia che intreccia galline ovaiole, ragazze arrabbiate e vecchi compagni.
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Foto: BIGSUR

Talvolta l’unico modo per dare senso all’esistenza è sposare una causa. Nel caso di “Capannone n. 8”, esordio italiano di Deb Olin Unferth pubblicato da Sur e presente in libreria da aprile 2021, la causa è quella dell’animalismo radicale.
Janey e Cleveland sono due ispettrici addette al controllo degli allevamenti intensivi di galline ovaiole in una zona dell’Iowa fatta di campi di mais e capannoni per l’allevamento intensivo. Da semplici colleghe, le donne diventano prima complici, poi compagne con un nemico comune e infine amiche legate per sempre dalla fallimentare missione di liberare di nascosto in una sola notte le novecentomila galline di un allevamento industriale. Il modo in cui è avvenuto il passaggio da “alleate” di un sistema ferocemente capitalista – “Questa è la storia del genio americano. Il moderno capannone per l’allevamento avicolo è una struttura perfettamente calibrata.” – a contestatrici delle Big AG è presentato come un evento impulsivo. Se Cleveland era solita tenere dozzine di volte all’anno corsi di formazione le cui parole chiave erano “‘depopolamento’ (leggi: sterminare le galline a centinaia di migliaia), ‘muta forzata’ (leggi: ridurre il mangime a tal punto da farle quasi morire di fame), ‘debeccaggio’ (leggi: tagliare via un pezzo di faccia), ‘certificazione’ (legittimare, anzi prescrivere, tutta una serie di atrocità), ‘Associazione Nazionale Produttori di Uova’ (il gruppo di maschi bianchi sulla cinquantina a capo di tutta la baracca)”, Janey non era mai stata coinvolta in lotte politiche, sebbene la sua rabbia nei confronti della vita sapesse di fertile disfattismo. Da una situazione di apparente passività e coinvolgimento, Cleveland comincia a filmare gli animali e a trasferire singole ovaiole, un’azione, quest’ultima, che trova fin da subito la solidarietà di Janey e che, una volta che l’idea diventa il progetto di liberazione di massa, incontra l’aiuto di centinaia di investigatori professionisti con un passato di infiltrati nell’industria della carne.
Sebbene Janey e Cleveland non mostrino una vera consapevolezza sul motivo che le spinge a liberare le ovaiole, nel momento in cui prende vita l’intenzione di un prelievo su scala gigante – “Fu allora che lo vide. Il Vero Progetto, una rivelazione: le gabbie che si disintegravano, le galline che schizzavano fuori dischiudendo l’acciaio come un uovo, gli uccelli che sgusciavano via dalle gabbie, che saltavano fuori dalle griglie di metallo come da un nido. Vide il tetto del capannone scoperchiarsi e le stelle riempire il cielo sopra la volta di rami e gabbie dondolanti. Vide le galline, centinaia di migliaia di galline, con un potere inaudito per le galline, che volavano via dal capannone, libere nella notte. ‘Cleveland’, sussurrò, anche se Cleveland non poteva sentirla, ‘prendiamole tutte’. Perché era arrivata la nuova Janey.” –, le loro azioni si arricchiscono di valore politico segnando il passaggio da un semplice pietismo nei confronti delle bestie sfruttate all’animalismo militante: “Ormai più che una rivoluzione l’animalismo era un capitalismo con la coscienza”.

 

Seppur “Capannone n. 8” non possa essere definito un romanzo politico, Deb Olin Unferth mostra da che parte bisognerebbe stare. Oltre a mettere in discussione l’antropocentrismo – “galline cosiddette da cortile (definite, come sempre, sulla base del loro rapporto con gli umani)” – e denunciare la normalizzazione della cattività degli animali – “Erano talmente abituate a vivere in quelle gabbie microscopiche che lo spazio le terrorizzava, tutta quell’aria, il tetto alto, e al di sopra il cielo, la libertà spaventosa, erano terrorizzate, e allora si ammassavano e ognuna cercava di infilarsi al centro della massa. E alla fine morivano soffocate. Succedeva ogni volta.” –, l’autrice racconta la militanza come un’esperienza vitale a prescindere dal raggiungimento dell’obiettivo. La narrazione dell’iniziativa animalista presenta però dei vizi dai quali prendere le distanze. La prima “ingenuità” è lessicale e riguarda la parola “ecoterrorismo/ecoterrorista”, la seconda, invece, riguarda un vecchio e scorretto modo di avvicinare (non far coincidere) le azioni anarchiche ad atti criminali (“Intanto l’altro gruppo, quello silenzioso, gli unici veri criminali tra loro – tanto che perfino gli anarchici non volevano averci niente a che fare – prese una decisione autonoma”). Quelle che potrebbero sembrare delle piccolezze, mostrano l’eco della repressione e di una cronaca giornalistica che troppo spesso ha criminalizzato un certo tipo di dissenso. È l’FBI, infatti, che negli anni Sessanta conia il termine “ecoterrorismo”, descritto come “l’uso o la minaccia di atti violenti, spesso simbolici, di natura criminale contro persone innocenti o oggetti da parte di gruppi di matrice ambientalista per scopi politici che si ricollegano a una causa ambientale”, una definizione, quest’ultima, rifiutata da molti movimenti radicali tra i quali l’Earth Liberation Front (ELF) che afferma: “Le autorità e i loro servi dei mezzi di informazione hanno lavorato molto per diffondere la falsa immagine dell’ecoterrorismo, questo non a caso. Se invece di essere definita come ecoterrorismo un’azione dell’ELF fosse spiegata alla gente per i suoi reali motivi inserita nel contesto appropriato, il pubblico potrebbe cominciare a supportare il movimento invece che a diffidarne. Oggi i mezzi di informazione sono usati per controllare le menti e, di conseguenza, le azioni del popolo. Quando avviene un fatto e si diffonde la notizia dovrebbe essere responsabilità delle agenzie di stampa e dei giornali fornire una visione obbiettiva e bilanciata dei violenti. Ma se questo si verificasse ognuno sarebbe in grado di farsi delle cose una visione personale. Etichettando un fatto, i media forzano pian piano il popolo a farsi un’idea che non è propria ma è quella di coloro che possiedono i media: le forze del mercato e dell’autorità. Quando si sente la parola terrorista nella mente delle persone sorgono immagini di stereotipati dirottamenti aerei a opera di arabi, violenza, morte. Così quando un’azione dell’ELF è descritta come ecoterrorismo nella mente delle persone si forma un’immagine negativa. Immagina se le attività dell’ELF fossero viste in modo obiettivo; se si sapesse perché il movimento esiste e quali sono i suoi scopi. Sempre più persone comincerebbero ad agire ispirate dai gesti del gruppo. L’ELF lavora per difendere la vita sul pianeta. I terroristi sono i governi e le industrie che sfruttano, uccidono, distruggono torturano ogni giorno in giro per il mondo”. Questa dichiarazione dell’ELF avviene a seguito dell’accusa da parte dell’FBI di essere una minaccia terroristica, imputazione avanzata nel 2001 sull’onda della Green Scare – in riferimento alla Red Scare del periodo del maccartismo – e cioè l’azione di contenimento del governo americano contro i movimento radicali ambientisti. Oltre alla già citata ELF, già dai primi anni Ottanta nel Nord America si era diffuso anche lo spirito dell’Animal Liberation Front (ALF), l’organizzazione antispecista strutturata informalmente di ispirazione anarchica e antifascista.
Gli Stati Uniti sono dunque una terra che conosce le lotte dei movimenti ecologisti e animalisti radicali a carattere clandestino, lotte che attuano strategie quali il sabotaggio, l’intimidazione, le turbative dell’ordine pubblico, i raid incendiari, azioni, queste ultime, che hanno come caratteristica la condizione di prendere “tutte le precauzioni ragionevoli per non mettere in pericolo le vite di alcun tipo”. Perché troppo spesso inconsapevoli delle narrazioni fallaci dello stato delle cose, è bene ricordare che anche i termini entrati ormai nell’uso comune hanno una storia che sa di repressione. Questa è però una critica che non oscura il valore del romanzo di Deb Olin Unferth, un libro capace di raccontare come una protesta prenda forma quando è condivisa, di mostrare la possibilità di sentirsi parte di qualcosa se uniti da una stessa contestazione, di spiegare come si possa creare rete dove prima c’era il nulla esistenziale. Nell’ottica dello sfruttamento animale, “Capannone n. 8” lascia aperta una domanda fondamentale: “In gioco: gli oggetti della contesa, novecentomila galline di Livorno bianche, importate dall’Italia a metà dell’Ottocento e allevate in modo frenetico da allora. Erano merci o individui? Il punto era proprio questo”.