Fascino e angoscia
La lieve perplessità che suscita in me l’iniziativa dell’Asl bolzanina di raccogliere opinioni sui turbamenti provocati dall’informazione sul caso Neumair, non mi vieta di considerare comunque interessante il dibattito che, anche prima di questa iniziativa, si era aperto su un tema che fa parte da tempo ormai della nostra realtà e che la quieta periferia bolzanina ha riscoperto in forza degli avvenimenti di questi ultimi mesi.
Non ho titoli da antropologo, psichiatra o sociologo da spendere, ma quasi mezzo secolo impiegato nel fare cronaca e nel riflettere su di essa mi portano ad elaborare alcune considerazioni.
La prima, e spero con essa di non deludere troppo coloro che continuano anche ad alta voce a sostenere di sentirsi offesi e disgustati dal clamore mediatico attorno ai casi di cronaca nera, è quella sul fatto che, al contrario, una stragrande maggioranza delle persone ha per queste vicende un interesse enorme.
Potrà non essere piacevole, ma è una realtà incontrovertibile, santificata dalla pratica del giornalismo di ogni epoca e paese dalla famosa regola delle tre S (sesso, sangue, soldi) che costituirebbero la base per costruire un prodotto appetibile per ogni generazione di lettori, di ascoltatori e di spettatori.
Il fascino morboso del crimine, comunque esso venga declinato, è peraltro antico quanto l’uomo. Dal caso biblico di Caino e Abele, con il quale nascono contemporaneamente il mistery, le tecniche di interrogatorio e le strategie difensive (sono forse io il custode di mio fratello?) discende un filo rosso che avvolge tutte le culture e tutte le epoche sino ad arrivare ai giorni nostri con la profusione di libri, film e sceneggiati televisivi che sul delitto affondano proficuamente le loro radici.
Al fascino morboso per la storia “nera” si sovrappone, anche in questo caso inevitabilmente, l’angoscia esistenziale quando dai personaggi di carta o di celluloide si passa alle persone vere. È la cronaca quotidiana che propone via via i suoi protagonisti, vittime e colpevoli, ma, se possibile, l’interesse aumenta ancora di più. Ci provò Mussolini, per santificare l’immagine di un regime che faceva viaggiare in orario i treni e nel quale tutti si comportavano da persone a modo, a cancellare dai giornali le brutte notizie o quanto meno a ridurne l’impatto, ma le storie di malaffare circolavano lo stesso, clandestinamente, come i giornaletti dell’opposizione. Poi, tornata con la democrazia la libertà di stampa si sono aperte le dighe e i giornali, avidi di lettori, si sono gettati a peso morto sui grandi casi di cronaca, sui delitti e soprattutto sui processi, veri e propri simulacri di teatro verità. All’epoca ci furono riviste che sono vissute, e bene, solo raccontando nei particolari le storie più oscure e sanguinose. Oggi hanno passato il testimone a trasmissioni televisive che hanno costruito interi spezzoni di palinsesto sulla narrazione quotidiana dei casi di cronaca che sembrano poter colpire più di altri l’opinione pubblica. I costi di produzione sono limitati e gli ascolti, invece, sono più che soddisfacenti. È abbastanza chiaro, in questi casi, che quel limite della “continenza” che viene invocato nelle regole deontologiche di base del giornalismo moderno va serenamente a farsi benedire, così come svanisce sullo sfondo il principio essenziale del diritto di cronaca al quale i giornalisti che fanno con coscienza il loro lavoro si appellano per poter costruire con correttezza gli avvenimenti di cui devono rendere conto ai loro lettori o ai loro ascoltatori.
Qui si tratta, e ci venga perdonato l’utilizzo di un termine inglese, di “infotainment” ovvero di un connubio tra informazione e spettacolo nel quale il dosaggio dei due elementi varia a seconda delle scelte editoriali e della caratura dei personaggi che ci mettono la faccia.
Per quanto si possano considerare disdicevoli queste forme di intrattenimento, basate sull’esposizione spettacolare delle vicende legate alla cronaca nera, non si può negare che non sia solo ad esse ma anche alla cosiddetta informazione continente e più che corretta, come quella che mi sembra gli organi di informazione locali hanno riservato anche al caso Neumair, che vada attribuito il fenomeno sul quale l’indagine bolzanina che fa discutere in questi giorni tenta di gettare uno sguardo.
È evidente che man mano che i fatti di cui si parla avvengono in un contesto sempre più simile a quello in cui noi stessi viviamo, tanto più la questione finisce per sollevare forme di trattenuta angoscia. Il caso Neumair, come molti altri, ci costringe innanzitutto a prendere atto di una verità che non è affatto piacevole: la violenza, omicida o meno, alloggia molto spesso, quasi sempre verrebbe da dire, all’interno di una famiglia, intendendo per famiglia quello strettissimo viluppo di relazioni fondamentali che un individuo crea attorno a sé nel percorso della sua vita. Un figlio uccide i genitori con una corda d’alpinismo, un marito uccide la moglie, un padre o uno zio abusano della figlia o della nipote. Gli esempi potrebbero andare avanti sino all’infinito e ci vengono proposti con terribile monotonia dalla cronaca quotidiana.
Dobbiamo prendere atto che, in questo modello sociale, il posto nel quale ci si aspetterebbe di trovare tutto il conforto della sicurezza di cui riteniamo di aver bisogno, è quello nel quale dobbiamo temere di più.
Non è una verità facile da accettare ed è per questo che, per aggirarla, si cercano delle spiegazioni in qualche modo rassicuranti. C’è stato un periodo, anni or sono, nel quale molti dei delitti compiuti venivano giustificati con l’ambiente sociale nel quale era cresciuto che vi commetteva. Oggi la giustificazione sociologica è stata sostituita da quella psicologica o psichiatrica che dir si voglia. Il marito che strazia a coltellate il corpo della compagna ha agito, si dice e si scrive, perché accecato dalla gelosia, in preda a un raptus, senza sapere quello che faceva. Il giovane assassino ha tolto il respiro ai genitori o almeno a uno di essi come in preda ad un sonnambulismo.
La realtà è che non riusciamo, se non con enorme fatica, ad accettare che l’individuo possa agire il male, l’odio, possa liberare la furia di un carattere violento, dare corpo ai fantasmi di una cultura brutalmente patriarcale, senza per questo perdere la propria capacità di capire quello che sta facendo in quel momento. La verità è anche che il nostro sistema di valori ci porta ad aberrazioni terribili. Un uomo come Matteo Messina Denaro ci può apparire come uno spietato assassino ma non penseremo mai che fosse incapace di intendere e di volere quando faceva sciogliere un bambino nell’acido per lanciare un terribile monito a chi volesse tradirlo mettendo in pericolo il suo impero economico e finanziario. In un mondo nel quale il denaro è la misura di tutto, chi uccide per denaro è un feroce assassino ma è perfettamente normale. Chi uccide per malvagità, perché incapace di dominare l’odio e la rabbia che si porta dentro ci terrorizza e quindi lo chiuderemmo volentieri nella gabbia della sua malattia, come qualcosa di estraneo rispetto a noi e a coloro che ci circondano.
In conclusione quella sottile angoscia di cui abbiamo parlato non è altro che l’altra faccia della medaglia del fascino morboso che le storie di sangue esercitano su un pubblico enormemente vasto e su questo le modalità più o meno esagerate che possono essere usate dal giornalismo hanno ben poca influenza.