Il giorno più lungo
Quando giocavo nelle giovanili dell’HCB – ero davvero davvero giovane allora – finito l’allenamento incrociavamo la prima squadra che entrava al palazzo di via Roma e Gino Pasqualotto era sempre il più simpatico di tutti. Scambiava battute con noi bambini e, insomma, era Gino. Poi me lo ricordo non so più nemmeno quanti anni fa, che spunta a casa mia per consegnare un frigorifero. E lì avevo pensato che, cazzo, una leggenda cittadina non si tratta così, anche se ovviamente era un lavoro dignitoso, come tutti quelli che ha fatto da lì in poi, il problema era Pasqualotto e insomma, per lui volevi qualcosa di più, anche solo per riconoscenza. Eppure anche questo alla fine ha contribuito a cementare il suo mito, l'ha reso in maniera definitiva il simbolo di una certa Bolzano senza voce, una parte di città che ogni giorno si alza per andare a lavorare nei cantieri, nei supermercati, sui camion. Negli ultimi anni era diventato senza dubbio l’ausiliare del traffico più amato sul pianeta terra. La scorsa primavera, durante le riprese di Hockeytown, ho avuto la fortuna di fargli una lunga intervista, credo sia durata circa un’ora e mezza, spostandoci mano a mano all’interno del Palaonda. All’inizio era un po’ sospettoso ma alla fine ho avuto l’impressione che fossimo tutti e due un po’ emozionati (io lo ero di sicuro) perché piano piano si era veramente aperto.
Oggi è il giorno del dispiacere, perché molti a Bolzano hanno l’impressione di aver perso un amico, anche se magari ci avevano parlato solo poche volte e per pochi minuti
Come un autentico bolzanino di una volta, Gino poteva essere un po’ brusco all’inizio (specie con chi non era “del suo mondo” come un giornalista che non conosceva) e calorosissimo dieci minuti dopo. Anche in questo era la città, o forse la città dei suoi tempi che era un po’ ingenua, ottimista, lavoratrice, affidabile e con un gusto per la battuta colloquiale in cui rimanevano vive tutte le variegate origini regionali degli italiani di Bolzano.
La frase sui giocatori di hockey come cavalli da corsa che poi vengono portati al macello per recuperare i soldi della carne è arrivata circa a due terzi di quella lunga conversazione e, anche se c’entrava relativamente, non ho potuto non inserirla nel documentario, perché rimane il fatto che il trattamento che ha subito non è stato degno del personaggio e di quello che ha fatto, come giocatore e come icona, per Bolzano. Ma l’hockey su ghiaccio in Italia è anche questo. La maglia ritirata in extremis ha parzialmente emendato questa situazione.
Oggi è il giorno del dispiacere, perché molti a Bolzano hanno l’impressione di aver perso un amico, anche se magari ci avevano parlato solo poche volte e per pochi minuti. Se tutti noi prima o poi abbiamo pensato che Gino sarebbe potuto tranquillamente essere un membro della nostra famiglia, uno zio, un cugino, un nonno, in queste ore c’è chi ha perso per davvero una colonna della propria, di famiglia. A loro va il mio abbraccio.
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*Questo contributo, gentilmente concessoci dall'autore, è stato tratto dalla sua pagina Facebook.